Voce del verbo “zampognare”
Nella tradizione Natalizia non possono mancare gli “zampognari” con il fascinoso suono della zampogna e della ciaramella!
In questo sensibile racconto di vita vissuta Brunella Santurro ci fa rivivere, o per i più giovani conoscere, il perché non è Natale senza il loro suono!
Natale non era Natale se Lidia non passava a casa ad omaggiare la Sora Maestra. Il 23 dicembre, all’indomani delle sospirate vacanze, la giovane contadina si presentava alla nostra porta di buon mattino, bella e florida come la sua terra in quel di Fontana Scurano. Il tavolo della cucina si riempiva di pane fragrante cotto a legna, qualche uovo (le galline “fetano” poco d’inverno) ed un’insalatiera piena di gustosi tartalicchi.
Era già madre di due bambini pressoché miei coetanei quando un anno arrivò col pancione e qualche antivigilia dopo, con un frugoletto che ormai camminava ma che, si lamentava, era la sua disperazione: tanto ubbidienti e assennati i fratelli maggiori, quanto riottoso, impulsivo e dispettoso quel bimbo inaspettatamente piovuto dal cielo.
Ciò che più l’angustiava era però la sua completa assenza di favella e a nulla valsero, quel mattino in cui ce lo mostrò per la prima volta, le energiche strattonate e qualche schiaffo non proprio “accompagnato”, affinché il monello si fosse degnato almeno di accennare un saluto all’amata maestra.
Abbarbicato alle gonne della madre e chissà con quale tormento interiore, quello spiritello libero e muto stava evidentemente vivendo con disagio la visita in una casa sconosciuta dove tutto c’era, fuorché prati o galline da rincorrere.
Eppure ad un certo punto qualcosa ci fu che gli fece guizzare gli occhi e spostare con la manina un ciuffo di riccioli ribelli: un presepe con la “P” maiuscola allestito nella camera ancora non arredata dove eravamo soliti giocare io e mio fratello.
Sebbene non propriamente volentieri, il 7 dicembre di quell’anno mamma aveva acconsentito all’invasione di cavalletti e fil di ferro, tavole e cantinelle, cassette di muschio e corteccia, rotoli di carta e quant’altro per l’avvio di un cantiere che il giorno dopo le abili mani di papà seppero tradurre in un tripudio di cielo stellato, montagne infarinate e un fiumicello gorgogliante.
Un piccolo mondo bucolico che accoglieva genti e animali in fermento per la nascita del Bambinello e che aveva riempito il cuore mio e di mio fratello di gioia pura.
Il monello di Lidia, bambinello in carne ed ossa, quel mattino fu quasi trascinato dalla madre nella camera in fondo al corridoio e, dopo l’ennesimo strattone e in fila indiana dietro ai fratelli, fu posizionato davanti al presepe.
Dapprima accigliato e con un broncio tremolante, sollevò pian piano il visetto rubicondo e, con lo sguardo vispo ma sempre più sgranato, abbracciò finalmente quel mondo in miniatura.
Laddove la favella del bimbo non riuscì a funzionare neanche in quel frangente di grande sorpresa, la luce meravigliata dei suoi occhi sembrò sopperire alla mancanza verbale. Non riuscì purtroppo a fugare il velo di tristezza da quelli della madre che, scuotendo il capo sconsolata, non riuscì a far altro che affondare le dita tra i riccioli del piccolo muto.
Scandivano l’Avvento, allora, gli zampognari calati dalle montagne di Atina.
Dopo la Novena per l’Immacolata, riprendevano i loro giri di casa in casa a suonare una breve nenia natalizia, suggestiva anche se non sempre intonata.
Erano operai di qualche fabbrica della pianura del frusinate, da cui erano stati spodestati i pascoli a favore dell’incipiente industrializzazione. Godevano di permessi che nessun datore di lavoro oggi si sognerebbe di concedere, pur di perpetuare quella semplice ma sentita tradizione tramandata dai loro padri pastori. Un nobile compromesso in barba ai contratti e ai sindacati, che avrebbe fatto sì che quell’usanza si sarebbe impressa per sempre nella memoria di noi bambini degli anni ’60.
E anche quel mattino li udimmo avvicinarsi, mentre sostavano presso le case circostanti.
Era l’ultimo giorno delle loro visite quotidiane e, trattandosi appunto dell’antivigilia, eseguivano una nenia più lunga: la Pastorale.
Stavano per giungere al nostro caseggiato quando, precipitandoci dalla camera, ci schierammo ad attenderli sull’uscio in religioso silenzio.
Un pubblico più folto si parò ai loro occhi: non due, ma cinque bambini e, tra questi, quel soldo di cacio seminascosto tra le gambe della madre.
Proprio nel momento in cui i due suonatori si umettarono le labbra per imboccare i fiati e gonfiare per l’ennesima volta le guance arrossate dal freddo e dal vino fino ad allora offerto, il piccolo ospite si fece impavidamente strada tra tutti noi e, indicando come un furetto il presepe in fondo al corridoio, esclamò con voce cristallina:
” Zampognà, zampognat’ allòc !”
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