Una domenica di Ottobre a Piedimonte Matese, dove..
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Dall’ album dei ricordi: cosi scriveva Alberto Minnucci*, uno dei tanti “giovani” del Gruppo Folclorico Aria di Casa Nostra, nei quasi settanta anni di attività:
<<Nel 1955, a primavera, andammo a Milano. Per molti di noi fu il primo viaggio di una certa importanza e lunghezza, scusateci. La guerra, pur terminata da dieci anni si faceva ancora sentire; il boom era di là da venire; il più… ricco o fortunato dei «ciociari 55» era stato, per diporto su un motoscooter di seconda mano. Si trattò della prima grossa ed impegnativa trasferta del Gruppo Folclorico Alatrense. Nella capitale economica italiana era in corso una delle prime edizioni della nuova fiera campionaria. Ci esibimmo in uno stadio, non a San Siro, ma all’Arena. A presentarci al folto pubblico delle scalee fu un giovanotto molto elegante e dalla voce calda. Quasi nessuno lo conosceva. Ci dissero che era un dottore in legge e che si chiamava Enzo Tortora. Anche il Gruppo, come il futuro presentatore TV era alle prime armi. Avevamo addosso una paura da far tremare il pur robusto palco. Cantammo ballammo. Ci fu prima silenzio e poi un uragano d’applausi «Forza mò…» ci sussurrammo, rinfrancati, ed esplodemmo nel salterello che i meneghini mostrarono di gradire molto di più dei compassati anche se perfetti balletti dei gruppi orientali. Il sole milanese, si sa, ad aprile è quello che è; ma noi riuscimmo a… scaldarlo. Il giorno successivo, tutti i giornali milanesi scrissero d’Alatri. Ricordo l’autorevole «Corriere della sera»: « …i ciociari d’Alatri si scompongono, pare che ognuno vada per conto suo, poi, improvvisamente, eccoli uniti, in una sfavillante policromia.
Il loro salterello ha fatto esplodere la Santabarbara dell’arena ».
Quando andammo in Fiera, il successo non fu minore. I nostri colori, gli ori e i coralli delle nostre ragazze fecero faville. Come attori fummo “richiesti” per centinaia di fotografie tra cinesi e neri. Dovevamo sorridere a tutti perché la Ciociaria ride di sole. Ma Dio solo sa con quale sforzo lo facemmo perché le ciocie del « 55 » erano…vere ciocie (prese in prestito dai contadini) e quasi tutte erano strette o larghe ed i piedi, non abituati, ne soffrono ancora dopo vent’anni. La sfilata in Piazza Duomo, sotto la Madonnina: un ricordo davvero incancellabile! Quando il corteo entrò in Galleria fummo presi dallo spavento. Lo sapevamo cos’era la Galleria di Milano nei cui «caffè», a quell’ora, sedevano solitamente i più famosi scrittori, editori, attori, giornalisti, industriali e registi italiani. Era un pubblico d’eccezione, insomma, quello verso il quale andavamo incontro. «Forza mò…» ci sussurravamo e ricominciammo col salterello mentre lo storico campanaccio svegliava anche i più addormentati colombi delle più alte guglie del Duomo. E tutti ci applaudirono con passione e convinzione. Ma uno degli spettatori, un cameriere che serviva quegli uomini famosi, ci fece piangere. Approfittò di un momento di calma e di relativo silenzio e, brandendo il cabaret, «Evviva S. Sisto» urlò e scomparve tra gli eleganti abiti della Milano-bene. Dopo sapemmo che era un ragazzo della “Fiura” al quale avevamo portato un angolo di casa sua.>>
di Alberto Minnucci 10/07/34 – 25/05/95
*Per oltre 30 anni fu puntuale interprete dei bisogni della comunità locale nelle pagine de il Messaggero con collaborazioni con Avvenire. Memorabili le sue battaglie contro il potere: i lettori sapevano di poter trovare nelle sue cronache non solo fatti ma anche vere e proprie frustate di ribellione civile e contro il potere burocratico.
Per ricordarlo, nel 1996 fù stato istituito il Premio giornalistico Alberto Minnucci. Tra i giornalisti che hanno ricevuto il premio vi sono Bruno Vespa, Carmen Lasorella, Lilli Gruber, Enzo Biagi, Giorgio Tosatti.
Cosi scriveva molti anni fa il nostro Sor Flavio; una riflessione che se pur datata potrebbe risultare attuale ai cultori delle tradizioni popolari, e come ricordava sempre: nel folklore e nella danza c’è l’animo di un popolo:
“Oggi il folklore ed il ballo italiano sono come li descrisse il piemontese Vajra «i grandi decaduti”: questa l’affermazione che si riscontra nel’ importante saggio sulla danza tradizionale.
ln verità non si può far storia delle religioni, della musica, del teatro, delle tradizioni popolari senza tener conto del folklore in genere e della danza in particolare.
Se noi consideriamo la condizione e la funzione della danza nella società italiana e la confrontiamo con la posizione che occupava e la considerazione in cui era tenuta nei passati secoli, dobbiamo senza meno riconoscere quel che asseriva il Vajra nel 1875, epoca in cui i veglioni carnevaleschi costituivano ancora un avvenimento popolare di grandissimo rilievo; epoca in cui non c’era manifestazione, non c’erano nozze che non terminassero con il tradizionale ballo: oggi tutto sembra esaurirsi e con rammarico si assiste alla discesa di questi valori coreutici e folcloristici.
Quando poi al posto occupato dalla danza nel folclore, anche se ormai in molte regioni non occupa più la posizione di grande rilievo che aveva un tempo, essa è pur sempre legata alle più pure espressioni tradizionali sia per il ciclo della vita umana, sia, e principalmente, per i lavori agricoli.
Ma è il caso di domandarci cosa sia stato fatto in Italia finora di veramente serio per una conoscenza storico-critica, basata su documenti, registrazioni di canti e di musiche per danze, affidate ai modernissimi mezzi sonoro-acustici e se anche per tutto quanto concerne il folklore contemporaneo?
Poco, pochissimo, eccezion fatta per qualche e registrazione di motivi ristretti ad una sparuta cerchia di paesi quando invece l’Italia, dalla Sicilia alla Sardegna, dalla Lombardia alla Ciociaria, alla Calabria è tutto un campo fertile per riportare alla luce motivi musicali di danze e cori come mezzo idoneo, il più adatto all’affermazione dei valori intrinseci del nostro folclore.
Si sente dire… “che bei costumi…che bei canti..che belle danze”; si vedono sorridere gli occhi per la gioia, quando inizia uno spettacolo di folclore ma più di questo nulla, mai nulla.
Eppure un grande figlio della Ciociaria, Anton Giulio Bragaglia, ha speso tempo prezioso per dedicarsi ad uno studio particolareggiato del folclore e della danza <Danze popolari italiane> per offrircelo a ricordo di tempi non superati ma rimpianti dalla maggioranza.
Questo libro è l’immagine di uno studio profondo, condotto con un rigore critico: una ricca messe di dati, di notizie, frutto di lunghe, pazienti ed utili ricerche.
In Italia e quindi anche in Ciociaria, la zona che maggiormente ci interessa ed alla quale tanto teniamo, occorre intraprende seriamente studi sul nostro folclore e sulle nostre danze.
Occorre riportarle in “auge” per offrirle ai tanti turisti che visitano le nostre zone come il miglior ricordo di questa nostra terra ciociara ed in questo sforzo non sia inutile ricordare che l’Italia, che oggi è invasa dalle danze straniere, dal valzer alla polka, dal tango al rock and roll ora al madison, nei secoli ha insegnato il ballo a tutta Europa.
Non sarebbe male se tutti gli intenditori prendessero l’iniziativa di compiere studi in tal senso, di far incidere appositi dischi, riportare a nuovo i nostri canti dell’aia, dei campi formare gruppi di danzatori, di cantori del folclore. Saranno i responsabili e gli esperti a sancire queste forme di rieducazione popolare attraverso ampi e sereni dibattiti. Quanto verrà fatto per promuovere sul piano pratico lo studio della danza popolare italiana, ed in particolar modo ciociara, costituirà un contributo prezioso per la messa in valore di una delle espressioni più spiritualistiche ed esteticamente felici delle geniali qualità artistiche del popolo italiano. Abbiamo visto gruppi folcloristici esteri organizzati a spese dello Stato: parlo dei gruppi iugoslavi, polacchi, francesi, cecoslovacchi, spagnoli: non ne abbiamo incontrati in tal senso italiani. E’ davvero una lacuna riprovevole.
Il Gruppo Folcloristico di Alatri, che continuamente visita città italiane ed estere, sa il valore della bellezza della danza e del folclore italiano, principalmente ciociaro, dei canti e delle danze ciociari, perche sono gli applausi incondizionati, i premi conseguiti, i rinnovati inviti che testimoniano quanta simpatia in ogni contrada di Italia esista per la nostra Ciociaria: il nostro folclore, così come dicono i giornali, è addirittura “signorile”.
E noi, lungi dai ronzii di questa dannata vita moderna, ci dovremmo sentire invitati ad un ritorno alla serenità, alla pace, ai nostri campi, cosi come accadeva anticamente quando tutte le mamme, attorno al focolare, ove crepitando si consumava un vecchio ceppo, raccontavano le favole che ci facevano più buoni, più sereni fino a farci cantare, a farci danzare spensieratamente.
Tempi scomparsi, ma che potrebbero tornare con la buona volontà di tutti, se davvero ci sentissimo custodi delle nostre belle e pure tradizioni popolari una volta ritrovatele: e ciò principalmente per la valorizzazione di questa nostra troppo depressa, ma tanto amata terra ciociara.
“Sor” Flavio Fiorletta
16/07/14 – 04/10/2007
C’ho sulle spalle la responsabilità di una tradizione centenaria: me sento responsabile a mette ‘ste ciocie e ‘sto bustino, a appontà la mantilla co’ gli spilloni che, pure se non lo dico, la ciocca un po’ me la bucano; n’è ‘na responsabilità che m’ pesa però, è ‘na cosa leggera.
È ‘na cosa che poi quando vado camminenn’ tutta ‘mpettita pe’ ‘ste stecche che porto in vita mi rende proprio fiera.
È ‘na cosa che quando passo ‘ncima a Civita vestita ass’sì, me fa sentì aggrappata a ‘sta terra mia che offre poco, ma che m’ha cresciuto.
È ‘na cosa che m’ fa pensà a nonnema, alla madre d’ nonnema, alla nonna d’ nonnema, perché loro, “a toll’ l’acqua alla Funtana Abbàll'”, ci ievan’ veramente!
E mi fa sentì ‘n’eletta perché io sto a continuà qualcosa.
Sto a continuà ‘na tradizione, sto a nutrì le radici delle mie origini, sto a permette a ‘sta pianta de continuà a cresce.
Non la sò trascurata, perché è ‘na specie de sigillo che tengo nel sangue.
È na responsabilità che mi fa riempì il cuore d’orgoglio, di voglia di fa, di scoprì.
Che mi fa rimanè a guardà le mura in contemplazione tutte le volte.
Che mi fa difende a spada tratta ‘sta città, che mi fa piange il cuore quando penso che forse, un domani, la devo salutà.
È ‘n impegno l’attenzione alla propria storia, ma è ‘n impegno che porto avanti co’ fierezza come non ho mai fatto co’ altro in vita mia.
Beatrice Bottini