Articoli

Sulla strada Santa Cecilia, immersa nel verde delle campagne alatrensi, ai piedi di un piccolo colle, il Monticchio, c’è un edificio comunemente chiamato Castello, ma che castello non è.
Informazioni sulla storia e soprattutto sulle caratteristiche della struttura si possono trovare online, ciò che qui viene messo in evidenza è invece l’aspetto socio-economico che la presenza del “castello” ha avuto nel nostro territorio.

Nasce come “grancia”, cioè deposito di grano, ma il termine viene utilizzato successivamente per definire il complesso di edifici costituenti un’azienda agricola.
Infatti la sua funzione era ancora più ampia, in quanto vi lavoravano numerosi contadini del territorio.
Oltre alla produzione di cereali, si allevavano bovini, suini e ovini, si produceva vino, tabacco, frutta e olio, molito direttamente dal frantoio aziendale e che veniva conservato in otri di terracotta di grande capienza.
In più, la fiorente attività era resa possibile dalla realizzazione di un laghetto artificiale e di un impianto di irrigazione ancora visibili.

Per quanto riguarda i cereali in particolare, la grancia disponeva di macchinari per la selezione di sementi così articolata: una prima selezione per le future semine, la seconda per la produzione di farina e un’ultima per alimentare il bestiame.

Altra caratteristica dell’attività nel castello era la presenza della “ritorna”, un manufatto circolare in sassi (usato per domare i cavalli) che nei caldi pomeriggi di estate era luogo di ristoro e riposo dei contadini prima di riprendere il lavoro.

A conferma dell’importanza rivestita dal castello, in tempi in cui l’agricoltura era la principale attività del territorio, il duro lavoro dei coloni e la lungimiranza dei proprietari sono stati premiati con vari riconoscimenti di eccellenza a livello nazionale dagli enti preposti.

Tutte le attività lavorative della grancia erano ben organizzate e coordinate dall’amministratore, nonché mio nonno: infatti proprio da questo ruolo deriva il soprannome della mia famiglia: “i Ministr’”.

Attualmente il castello è di proprietà privata e non vi è possibilità di accesso e personalmente lo ritengo un vero peccato!
Sarebbe bello e istruttivo poter visitare quel che in passato era il fulcro della vita contadina di questa contrada.

Per approfondire lo Statuto del “castello” basta un click QUI.

Carla Scarsella

A metà del secolo scorso un viaggiatore scriveva:

….La strada scendeva quindi dolcemente nella fertile campagna di Alatri, e finalmente dopo aver girato una collinetta vidi dinanzi a me questa interessante città. […]
Alatri è il centro principale di industria e di commercio dei monti Ciociari, vi si fabbricano stoffe, tappeti, coperte di lana, e quelle giubbe e quei cappelli a punta che sono tanto in uso in tutto il Lazio.
Il giorno in cui arrivai, c’era mercato. Le strade e le piazze, ingombre della frutta d’agosto, fichi, pesche, albicocche e grosse pere, offrivano un lieto spettacolo ed erano gremite di gente”.

[GREGOROVIUS, Passeggiate per l’Italia, Roma 1906, vol. I, p. 102]

Intorno al 1820 vi erano ad Alatri quarantadue imprenditori lanieri, e i dati di un censimento realizzato dall’amministrazione pontificia, parlano di una trentina di insediamenti produttivi, molti dei quali superavano decisamente le dimensioni del laboratorio artigianale, con un numero di operai prossimo al migliaio, ossia al 12% della popolazione complessiva di Alatri.

Agli inizi del Novecento la tradizione artigianale a livello “domestico “costituiva per le donne alatrine la fonte primaria di guadagno e non c’era casa in cui non ci fosse un telaio.
La strada delle Piagge, che dal centro scende fino alla parte più bassa del paese, era detta anche delle tesserèlle (tessitrici); gli anziani ricordano ancora il sonoro ticchettio che poteva sentire, a tutte le ore del giorno, chiunque percorresse certe strade del centro storico. (…)

La città nel Medioevo si divideva in due grandi circoscrizioni, le Piagge (suddivise in: Spidini, Santa Lucia, Sant’Andrea e San Simone) e Civitavetere (suddivisa in : Fiorenza, Vineri, Colle, Scurano e Valle). (…)
La forte richiesta dei prodotti d’uso più ricorrenti fece fiorire numerosi e svariati laboratori artigianali. Anche se attualmente non esistono toponimi indicatori, è da ritenere che gli artigiani operanti nello stesso settore fossero concentrati in zone ben definite della città: così i cocciari avevano i loro laboratori nel tratto compreso tra le chiese di Santa Lucia e di San Silvestro, per via delle numerose piazzette che permettevano al sole l’essiccamento dei manufatti.(…)

Forte di una secolare tradizione, la tessitura, tra le varie attività artigianali locali, oltre che a livello domestico cominciò, “eccitata dal lucro che gli arpinati facevano coi loro panni posti in commercio nella Provincia”, ad essere esercitata anche in alcuni laboratori organizzati su scala più ampia, anche grazie all’apporto di alcuni “esperti” provenienti da Arpino (Francesco Marino e Baldassarre De Rubeis) e da Isola di Sora (Generoso D’Orazio); questi stabilimenti, dove veniva lavorato e tinto quello che divenne il famoso “panno di Alatri”, erano situate tra il rione Scurano e le Piagge.

In un primo momento vennero prodotti solo “panni bassi”, ovvero non più alti di due panni e mezzo, di fattura rustica e grossolana, adatti ad un mercato poco esigente; in seguito, però, iniziò la produzione di “panni fini”, all’uso di Arpino, alti non meno di cinque palmi. Alla base di questo salto qualitativo stava da un lato il divieto di acquistare tessuti provenienti da fuori, e dall’altro la costruzione (1726-27) dello stabilimento della famiglia Tofanelli che effettuava lo spurgo e la gualcatura delle pezze. In questo periodo le manifatture tessili di Alatri ”si vendevano nelle fiere di Anagni, Segni, Valmontone, Velletri, Ceccano, Ceprano, Monte San Giovanni e Terra di Banco.

I più antichi insediamenti produttivi di cui si ha notizia risalgono alla prima metà del Settecento, e sono:

  • tre dal 1724 (proprietari erano tre diversi Vinciguerra: Giovanni Battista, Bernardo e Sebastiano);
  • altri due dal 1734 (proprietari: Giuseppe Villa, Luigi Pomella);
  • altri due dal 1744 (proprietari: Pietro Di Fabio, Geltrude Tagliaferri);
  • altri cinque dal 1754 (proprietari: Anastasio Martufi, Giovanni Martufi, Antonio Volpari, Giovanni Di Fabio, Sisto Paolo Squilla).

Sul finire del secolo, poi, ad Alatri erano in funzione ben 44 fabbriche, contro le 56 attive a Roma; nel 1796 sono stati censiti circa 90 telai per lana.
Nel 1820 i fabbricanti di drappi di lana erano 42, tutti patentati, come confermato dai registri dell’Ufficio del Bollo.
Nel 1829 c’erano ad Alatri “numerose fabbriche” che impiegavano circa 3000 operai producendo annualmente circa 2000 pezze di panno; nel 1831, invece, erano occupati nella produzione laniera due terzi degli uomini validi, su una popolazione di circa 9000 abitanti. Ancora nel 1849 risultano “non pochi” gli “industriali” impegnati nella produzione laniera.(…)

A contribuire all’estinzione dell’arte della lana ad Alatri è stato un terremoto che, nel 1915, ha distrutto la zona delle Piagge, ove era concentrato il maggior numero di telai; le case furono ricostruite, ma i telai non furono rimpiazzati.(…)

Giovanni Minnucci, discendente di una famiglia di “cordari”, aggiunge che da sempre gli artigiani alatresi sono stati carenti quanto a mentalità imprenditoriale, né mai hanno sperimentato forme di cooperazione o di associazione tra piccole imprese, nemmeno negli anni in cui fiorivano in tutta Italia consorzi artigianali nei più diversi ambiti produttivi. Segnala che nel 1902 ad Alatri erano in funzione una gualchiera con 2 operai per 180 giornate/anno, dieci “fabbriche di tessuti misti” con 77 operai per 280 giorni /anno, e una tintoria con 3 operai per 100 giorni/anno.

 

Notizie tratte da:

GENI COSTANZO, Aspetti della Politica industriale pontificia tra XVIII e XIX secolo: il caso di Alatri (tesi di laurea in Storia economica, Università degli studi di Cassino, facoltà di Economia e Commercio, Anno Accademico 1995-96)

Come non ricordare Sor Flavio, il giorno della ricorrenza, con questa bellissima poesia dedicatagli dall’amica Marilena Lepori! 

‘Sta piazza stasera mê sémbra ‘ncantàta,
nê wò fa rêwiwê ‘na storia passata.

Èra da pócô finita la guèra:
cràlêmê amarê piagnéwa ‘sta tèra…

‘Nô alatrésê pêrò, ‘nê sê attèra ‘mmai:
sà sèmprê rêsórgi da tutti gli guai!

Scórta la famê, chélla più nera,
ariwà pê tutti la wita wéra…

I fu própria allóra, carô “sòr Flà”,
chê ‘sta cumpagnìa wulìsti crià.

Cu ‘mmani ‘nô òrghini pê ‘ncumênzà,
purê gli ciunchi facìsti ballà!

…Pandòra purtawa ‘nô fiascô dê winô,
cantènnê biweva, cu Scórcia i Peppinô…

…i déntrô ai canìstrô dê zia Sistinèlla
sèmprê ci stawa ‘na crustatèlla!

Pê tuttô gli munnô nê purtasti a ballà,
i pê fa cunósci ‘sta cara città,
purê déntrô a ‘nô film la wulisti ‘nfilà!

Mó tu, sòr Flà, nê stai a guardà:
i da chéllê stéllê wularisti calà…

Ma pê nua stai a écco, mésê a ‘sta gèntê,
sóttô a ‘sta luna chê parê d’argèntô.

Èccô sòr Flà, stannê a guardà:
‘nô sardarèllô mó iamô a ballà.

Battamô gli témpô cu gli tamburégli:
spêramô dê fa gli munnô più bégli.

Sarda i rêsarda, gli fiatô sê accórcia:
a tutti quanti gli mussô sê aróscia…

“Vola la spòla”, pê siguità…
…i méntrê sê canta, nê sê pò a tì nê pênsà!

È chésta l’artê chê nê si ‘mparatô:
grazzi “sòr Flà”, padrê nóstrô aduratô.

Gli munnô cammina, nê sê pò furmà:
mó attòcca a nua l’opêra téa siguità.

Tutta Alatri stasera tê wó rêcurdà:
i tu, da ésci ‘ncima, stalla semprê a guardà!

 

Al mio maestro  – Marilena Lepori

Il territorio di Alatri, confina con Frosinone quasi a ridosso della città capoluogo…ma… perchè è cosi?

La leggenda racconta che:

Bisognava stabilire definitivamente i confini tra Alatri e Frosinone, allora alcuni rappresentanti delle rispettive città decisero di fissare il confine nel punto di incontro tra due podisti, araldi delle rispettive città, con partenza al canto del gallo (allora non esistevano orologi sincronizzati che trasmettevano il segnale via etere !).
I Frusinati (Frusulunisi, per dirla “in cianfrica” [in dialetto]), tennero il gallo sveglio cercando di farlo cantare prima dell’alba, ma quello,  stanco,  si abbioccò.
Gli Alatresi, (forse più “scaltri”?) misero il gallo sotto un canestro;
Un paio d’ore prima dell’alba accesero dei lumi e tolsero il canestro. Il gallo vedendo tutto quel chiarore cantò. Quello “Frusulunese”  soltanto a sole levato cantò.
Ovviamente l’araldo alatrese giunse tanto lontano da raggiungere Frosinone.
In sostanza…il gallo, pur non facendo uova, come risaputo e scientificamente dimostrato, fece una bella frittata !

Ma perchè non citare un’altra versione della leggenda? Ed eccola pronta:

Per dirimere la controversia dei confini, gli abitanti di Alatri e Frosinone decisero che avrebbero fatto partire ognuno un gallo dalle rispettive città. Il confine sarebbe stato segnato nel punto di incontro delle due bestiole.
La notte prima della disputa, gli Alatresi portarono, senza farsi accorgere dai Frusinati, delle giovani gallinelle al recinto del gallo. Be’, il gallo fece il suo “dovere” (come recita uno stornello: “sapessi la virtù che c’ha il gallo, delle galline se capa la mejo, delle galline se capa la mejo, gli fa’ chicchirichi e monta a cavallo”) e al momento della partenza, sfinitto e stanco, non aveva molta voglia di correre!!

Pur se sospinto dalle grida dei frusinati fu surclassato dal giovin gallo alatrese (tenuto a “stecchetta”) fino ad arrivare all’attuale via Termini.

Essendo “leggende” c’è anche quella “piccante” !! No, no…. non pensate male!

È che si narra che gli Alatresi infilarono un peperoncino nel sedere del loro gallo che correndo disperatamente, incontrò l’avversario praticamente alle porte di Frosinone!

Sono solo storielle ….😉

 

 

(cit. Nazareno C. – Marilinda F. – Armando C.)

 8 Settembre_ Madonna della Libera

Non esiste paese del mondo che non abbia una devozione mariana, persino nei paesi di tradizione islamica la Vergine gode di una venerazione profondissima dai fedeli musulmani.
In Italia non esiste paese che non abbia una piazza dedicata alla Madonna.
Non da meno è la nostra città. Ma direi meglio: la nostra terra che alla vetusta immagine della “libera” ha affidato, da sempre, le proprie fatiche e le proprie attese.
La nostra gente non ha trovato miglior avvocato che in questa madre dal volto tenero pronta ad ascoltare i gemiti dei propri figli. A lei il nostro popolo ha affidato perfino i frutti della terra portando in dono e confidando nel suo soccorso,  il giorno della vigilia, ortaggi e spezie.
Sono i frutti della gente di qua: povera, semplice e genuina capace di far famiglia e festa attorno ad una cipolla.
Tra le Feste di Alatri, l’8 settembre è quella a cui sono più legato perché ha mantenuto, a discapito del tempo, un profumo antico dove le radici e le origini dei nostri padri non si vergognano di essere messe in mostra sui banchi di contadini con le mani scavate e gli occhi di chi ha conosciuto la miseria.
Le cipolle, a ben guardare,  sono il segno dell’umiltà del nostro popolo. Il simbolo della fatica dei nostri padri. Il profumo asciutto della nostra gente.
Ai piedi di questa madre i nostri nonni hanno affidato le loro angosce e con fiducia, davanti a lei, non sono venuti meno alla propria fede: l’hanno tolta da un colonna e fatta regina di questa terra. L’hanno chiamata “Madonna della libera”  invocando,sotto assedi, pestilenze e guerre la consolazione della libertà.
A lei si sono rivolti i nostri nonni per ” chi pecca e per chi geme, per chi ha figli e non ha pane”, come hanno scritto nell’inno a lei dedicato. Nessuno di noi potrà mai negare a lei uno sguardo. Nessuno di noi ha il cuore così duro da non rivolgerle un saluto.
Anche chi fa a pugni con la fede sa di trovare in quegli occhi il sorriso di una mamma.

“Del nostro popolo presidio e onor” recita, ancora, la prima strofa dell’inno popolare.
Icona stupenda della venerazione della nostra Alatri che ha,  più del Santo patrono, promesso onore alla gran Madre di Dio, incoronandola “Regina” e protettrice.

“I nostri padri con Fede pia “- continua l’inno,  alla tua immagine “dolce Maria” hanno fatto ricorso togliendosi il cappello davanti a te.
Nominando una “valle” (Valle Santa Maria)  tuo feudo prediletto.
Ti hanno custodito come tesoro prezioso tanto da stabilire che la tua immagine fosse portata tra le strade ogni 50 anni.

La Madonna della libera è di più che una esperienza religiosa ma è la storia della nostra gente. L’icona della nostra storia.  La semplicità e l’umiltà dei nostri padri che avevano intuito che sono gli umili ad essere davvero grandi.

 

Gabriele Ritarossi

(ph. Website Fotografia97)

C’ho sulle spalle la responsabilità di una tradizione centenaria: me sento responsabile a mette ‘ste ciocie e ‘sto bustino, a appontà la mantilla co’ gli spilloni che, pure se non lo dico, la ciocca un po’ me la bucano;  n’è ‘na responsabilità che m’ pesa però, è ‘na cosa leggera.
È ‘na cosa che poi quando vado camminenn’ tutta ‘mpettita pe’ ‘ste stecche che porto in vita mi rende proprio fiera.
È ‘na cosa che quando passo ‘ncima a Civita vestita ass’sì, me fa sentì aggrappata a ‘sta terra mia che offre poco, ma che m’ha cresciuto.
È ‘na cosa che m’ fa pensà a nonnema, alla madre d’ nonnema, alla nonna d’ nonnema, perché loro, “a toll’ l’acqua alla Funtana Abbàll'”, ci ievan’ veramente!
E mi fa sentì ‘n’eletta perché io sto a continuà qualcosa.
Sto a continuà ‘na tradizione, sto a nutrì le radici delle mie origini, sto a permette a ‘sta pianta de continuà a cresce.
Non la sò trascurata, perché è ‘na specie de sigillo che tengo nel sangue.
È na responsabilità che mi fa riempì il cuore d’orgoglio, di voglia di fa, di scoprì.
Che mi fa rimanè a guardà le mura in contemplazione tutte le volte.
Che mi fa difende a spada tratta ‘sta città, che mi fa piange il cuore quando penso che forse, un domani, la devo salutà.
È ‘n impegno l’attenzione alla propria storia, ma è ‘n impegno che porto avanti co’ fierezza come non ho mai fatto co’ altro in vita mia.

 

Beatrice Bottini

Le Ciocie…

Quando te le leghi ai piedi ti rendi conto che non sei tu ad indossare loro, ma che sono loro a legarti a sé…
Le stringhe attorno ai polpacci infatti, ci legano e ci collegano al nostro passato fatto di gente buona, contadina, sincera; alle nostre tradizioni, ai nostri canti e balli ancestrali.

Certe volte capita che chi non le abbia mai indossate rida un po’ di noi che, anche oggi, tra lo smartphone e l’ipad, le indossiamo.
Fanno un po’ tenerezza, perché non capiscono quanto le tradizioni siano importanti e perché chi dimentica da dove proviene finisce per crescere come un albero senza radici.

Noi siamo fieri delle nostre radici, solide come le pietre della nostra Acropoli.
Noi abbiamo compreso che c’è una nobiltà profonda nel dichiararsi figli di gente semplice, nel portare in giro per il mondo canti e balli di una terra povera, ma che tramandano la dignità della vita dei nostri pastori e dei nostri contadini.

Abbiamo capito da tempo che siamo belli quando indossiamo i nostri costumi e nel mondo siamo davvero messaggeri della bellezza.

Vogliamo continuare ad essere degni dei nostri padri, ed è per questo che facciamo dell’ironia la nostra arma migliore, come facevano loro, che allontanavano il male e la noia con l’allegria degli stornelli cantati ad ogni buona occasione, perché ogni occasione è buona.

Abbiamo conosciuto migliaia di ragazzi di ogni parte del mondo, e in ogni parte del mondo ci siamo innamorati, abbiamo riso fino alle lacrime e abbiamo pianto fino a un nuovo sorriso con nuovi amici, perché il gruppo folk è una grande passione: passione per Alatri, per l’amicizia, per le tradizioni e per la musica.

E tutto questo lo dobbiamo a te… grazie Sor Fla’, e salutaci Pandora.

 

Achille Gussati