A metà del secolo scorso un viaggiatore scriveva:

….La strada scendeva quindi dolcemente nella fertile campagna di Alatri, e finalmente dopo aver girato una collinetta vidi dinanzi a me questa interessante città. […]
Alatri è il centro principale di industria e di commercio dei monti Ciociari, vi si fabbricano stoffe, tappeti, coperte di lana, e quelle giubbe e quei cappelli a punta che sono tanto in uso in tutto il Lazio.
Il giorno in cui arrivai, c’era mercato. Le strade e le piazze, ingombre della frutta d’agosto, fichi, pesche, albicocche e grosse pere, offrivano un lieto spettacolo ed erano gremite di gente”.

[GREGOROVIUS, Passeggiate per l’Italia, Roma 1906, vol. I, p. 102]

Intorno al 1820 vi erano ad Alatri quarantadue imprenditori lanieri, e i dati di un censimento realizzato dall’amministrazione pontificia, parlano di una trentina di insediamenti produttivi, molti dei quali superavano decisamente le dimensioni del laboratorio artigianale, con un numero di operai prossimo al migliaio, ossia al 12% della popolazione complessiva di Alatri.

Agli inizi del Novecento la tradizione artigianale a livello “domestico “costituiva per le donne alatrine la fonte primaria di guadagno e non c’era casa in cui non ci fosse un telaio.
La strada delle Piagge, che dal centro scende fino alla parte più bassa del paese, era detta anche delle tesserèlle (tessitrici); gli anziani ricordano ancora il sonoro ticchettio che poteva sentire, a tutte le ore del giorno, chiunque percorresse certe strade del centro storico. (…)

La città nel Medioevo si divideva in due grandi circoscrizioni, le Piagge (suddivise in: Spidini, Santa Lucia, Sant’Andrea e San Simone) e Civitavetere (suddivisa in : Fiorenza, Vineri, Colle, Scurano e Valle). (…)
La forte richiesta dei prodotti d’uso più ricorrenti fece fiorire numerosi e svariati laboratori artigianali. Anche se attualmente non esistono toponimi indicatori, è da ritenere che gli artigiani operanti nello stesso settore fossero concentrati in zone ben definite della città: così i cocciari avevano i loro laboratori nel tratto compreso tra le chiese di Santa Lucia e di San Silvestro, per via delle numerose piazzette che permettevano al sole l’essiccamento dei manufatti.(…)

Forte di una secolare tradizione, la tessitura, tra le varie attività artigianali locali, oltre che a livello domestico cominciò, “eccitata dal lucro che gli arpinati facevano coi loro panni posti in commercio nella Provincia”, ad essere esercitata anche in alcuni laboratori organizzati su scala più ampia, anche grazie all’apporto di alcuni “esperti” provenienti da Arpino (Francesco Marino e Baldassarre De Rubeis) e da Isola di Sora (Generoso D’Orazio); questi stabilimenti, dove veniva lavorato e tinto quello che divenne il famoso “panno di Alatri”, erano situate tra il rione Scurano e le Piagge.

In un primo momento vennero prodotti solo “panni bassi”, ovvero non più alti di due panni e mezzo, di fattura rustica e grossolana, adatti ad un mercato poco esigente; in seguito, però, iniziò la produzione di “panni fini”, all’uso di Arpino, alti non meno di cinque palmi. Alla base di questo salto qualitativo stava da un lato il divieto di acquistare tessuti provenienti da fuori, e dall’altro la costruzione (1726-27) dello stabilimento della famiglia Tofanelli che effettuava lo spurgo e la gualcatura delle pezze. In questo periodo le manifatture tessili di Alatri ”si vendevano nelle fiere di Anagni, Segni, Valmontone, Velletri, Ceccano, Ceprano, Monte San Giovanni e Terra di Banco.

I più antichi insediamenti produttivi di cui si ha notizia risalgono alla prima metà del Settecento, e sono:

  • tre dal 1724 (proprietari erano tre diversi Vinciguerra: Giovanni Battista, Bernardo e Sebastiano);
  • altri due dal 1734 (proprietari: Giuseppe Villa, Luigi Pomella);
  • altri due dal 1744 (proprietari: Pietro Di Fabio, Geltrude Tagliaferri);
  • altri cinque dal 1754 (proprietari: Anastasio Martufi, Giovanni Martufi, Antonio Volpari, Giovanni Di Fabio, Sisto Paolo Squilla).

Sul finire del secolo, poi, ad Alatri erano in funzione ben 44 fabbriche, contro le 56 attive a Roma; nel 1796 sono stati censiti circa 90 telai per lana.
Nel 1820 i fabbricanti di drappi di lana erano 42, tutti patentati, come confermato dai registri dell’Ufficio del Bollo.
Nel 1829 c’erano ad Alatri “numerose fabbriche” che impiegavano circa 3000 operai producendo annualmente circa 2000 pezze di panno; nel 1831, invece, erano occupati nella produzione laniera due terzi degli uomini validi, su una popolazione di circa 9000 abitanti. Ancora nel 1849 risultano “non pochi” gli “industriali” impegnati nella produzione laniera.(…)

A contribuire all’estinzione dell’arte della lana ad Alatri è stato un terremoto che, nel 1915, ha distrutto la zona delle Piagge, ove era concentrato il maggior numero di telai; le case furono ricostruite, ma i telai non furono rimpiazzati.(…)

Giovanni Minnucci, discendente di una famiglia di “cordari”, aggiunge che da sempre gli artigiani alatresi sono stati carenti quanto a mentalità imprenditoriale, né mai hanno sperimentato forme di cooperazione o di associazione tra piccole imprese, nemmeno negli anni in cui fiorivano in tutta Italia consorzi artigianali nei più diversi ambiti produttivi. Segnala che nel 1902 ad Alatri erano in funzione una gualchiera con 2 operai per 180 giornate/anno, dieci “fabbriche di tessuti misti” con 77 operai per 280 giorni /anno, e una tintoria con 3 operai per 100 giorni/anno.

 

Notizie tratte da:

GENI COSTANZO, Aspetti della Politica industriale pontificia tra XVIII e XIX secolo: il caso di Alatri (tesi di laurea in Storia economica, Università degli studi di Cassino, facoltà di Economia e Commercio, Anno Accademico 1995-96)

Era il 4 ottobre del 1976, quando ad Alatri il nostro gruppo ha avuto l’onore di ricevere il Premio Europeo per l’arte popolare. Una data doppiamente cara al nostro sodalizio considerato che lo stesso giorno ma a distanza di circa trent’anni, veniva a mancare l’artefice di quello che è attualmente Aria di Casa Nostra.
Di seguito la lode,  con la motivazione del Premio (tradotta dal tedesco) enunciata difronte al nostro Flavio Fiorletta, a tutti i membri del gruppo e alla cittadinanza invitata all’evento.

Laudatio per il gruppo “Aria di casa Nostra”
dal Prof. Dr. R.W. Brednich, membro del Curatorio

Gentile Signore, Egregi Signori!

Quest’anno per la quarta volta viene assegnato il Premio Europeo per  l’Arte Popolare.
E’ una grande gioia mia personale assegnare al gruppo folkloristico di Alatri questo premio.

Il Premio Europeo per l’arte popolare è stato messo a disposizione dalla Fondazione F.V.S. di Amburgo nel millenovecentosettantre per premiare organizzazioni e personalità che abbiano fatto cose esemplari per la conservazione e la fissazione dell’arte popolare ed in particolare per quanto riguarda la musica, la danza, il teatro e le usanze popolari.

Il premio è un espressione di stima che nuovamente viene concessa a questo ramo dell’arte popolare che per lungo tempo è stato sottovalutato e sprezzato, non inserendosi nel corrente concetto affermativo dell’arte. Negli ultimi anni si è verificata una profonda modificazione nel modo di vedere.
Oggi giorno, il folklore fa parte della vita culturale, ha raggiunto un valore del tutto nuovo e gode della crescente attenzione da parte del pubblico.
Il premio dato in fondazione dal commercialista e noto mecenate Dottore Alfred Toepfer, con lo scopo di incoraggiare tutti coloro che si dedichino alla ricerca ed alla cura dell’arte europea e che oltre a ciò siano in grado di tenere in vita questa eredità. Per quanto riguarda la cura e la promozione del folklore l’Italia occupa il primo posto. E’ quindi naturale che il consiglio di amministrazione del Premio Europeo dell’Arte Popolare abbia preso in considerazione l’assegnazione del Premio ad un gruppo italiano.

Devo confessare che non è stato facile scegliere uno fra i tantissimi ed eccellenti gruppi folkloristici provenienti da ogni parte del Paese. A questo punto vorrei ringraziare di cuore il mio amico e collega Prof. Giovanni Bronzini,  il quale,  grazie alla sua gentile collaborazione ha facilitato moltissimo il lavoro del Consiglio di Amministrazione. Egli, quale presidente dell’associazione dei gruppi folkloristici italiani, invitò tutti i gruppi associati a concorrere per il premio e prontamente più di 100 gruppi, provenienti da ogni parte d’Italia, iniziavano la gara mettendo a disposizione fra l’altro fotografie a colori, dischi, canzoni etc.

Riconoscendo la prestazione ed i successi più di venti gruppi avrebbero meritato la premiazione. Una decisione doveva comunque essere presa ed il Consiglio di Amministrazione della Fondazione ha la certezza di aver fatto una scelta convincente assegnando il premio al gruppo “Aria di Casa Nostra”.

Stiamo premiando qui ad Alatri un gruppo che può essere indicato quale ideale ambasciatore dell’arte popolare italiana.

Vorrei pregare Lei, egregio Direttore Fiorletta, e Voi, cari membri del gruppo, di voler accettare questo premio anche per i molti gruppi italiani che, come Voi,  seguono gli stessi ideali. Prima di tutto però questo premio intende riconoscere ed onorare il Vostro personale impegno.
Il gruppo “Aria di Casa Nostra” dispone di una tradizione che risale a prima della seconda guerra mondiale.
Oggi, nel venti sesto anno di vita il gruppo, grazie ai suoi balli, canti e costumi si è fatto un nome sia in Italia sia all’estero. I suoi membri provengono da una parte centrale d’Italia, la quale non ha ancora subito le influenze della moderna cultura di massa. Qui sono ancora vive delle autentiche tradizioni che vengono raccolte, trasformate artisticamente e migliorate dal gruppo.

Merita di essere menzionato il fatto che in questa città collaborino in modo esemplare la cura e la ricerca.

Il successo può essere rilevato dal numero degli spettacoli effettuati all’estero ed in Italia, dalle varie partecipazioni a trasmissioni radiofoniche e televisive. Però ogni volta il gruppo ritorna volentieri nella sua città natale, considera suo compito principale nonostante i numerosi impegni fuori, operare per Alatri e i suoi abitanti. E quindi tutti i presenti Alatrensi ed ospiti sono ben felici di aver potuto partecipare a questa manifestazione.
Ho l’onore ed il piacere di poter assegnare al gruppo Il Premio europeo per l’Arte Popolare.

Il certificato che conferma la premiazione ha il seguente testo:

“Secondo la decisione del Consiglio di Amministrazione della Fondazione del F.V.S. di Amburgo viìene assegnato  al gruppo folkloristico Aria di Casa Nostra di Alatri (Italia) il premio per l’anno millenocentesettantasei per le sue prestazioni per la conservazione e lo sviluppo dell’arte popolare, per i suoi meriti nella raccolta, conservazione, cura e diffusione della tradizioni popolari italieane della canzone, musica, danza, costumi ed usanze”.

Questo certificato è stato emesso in data quattro ottobre millenovenetosettantasei, giorno della solenne consegna del premio. -Firmato  Dottore Robert Wildhaber,presidente del Consiglio di Amministrazione

 

 

 

Urkunde

Auf BeschluB des Kuratoriums wird der 

Europa-Preies fr Volkskunst

Der von der Stiftung F.V.S. zu Hamburg fr beispielhafte Leistungen

Zur Erhaltung und Fortentwicklung von Volkskunst zur Verfgung gestellt

wurde, fr das Jahr 1976 anteilig der

Folklore-Gruppe

“ARIA DI CASA NOSTRA”

in Alatri

Italien

Verliehen f r ihre groBen Verdienste um die Sammlung, Erhaltung,

Pfleghe und Weitergabe italienischer Volks berlieferungen in Lied,

Musik, Tanz, Tracht und Brauchtum.

Diese Urkunde ist ausgestellt am Tage der feierlichen bergabe

der Auszeichnung.

Alatri, am 4. Oktober 1976

(Dr. Robert Wildhaber)

Vorsitzender des Kuratoriums

Il territorio di Alatri, confina con Frosinone quasi a ridosso della città capoluogo…ma… perchè è cosi?

La leggenda racconta che:

Bisognava stabilire definitivamente i confini tra Alatri e Frosinone, allora alcuni rappresentanti delle rispettive città decisero di fissare il confine nel punto di incontro tra due podisti, araldi delle rispettive città, con partenza al canto del gallo (allora non esistevano orologi sincronizzati che trasmettevano il segnale via etere !).
I Frusinati (Frusulunisi, per dirla “in cianfrica” [in dialetto]), tennero il gallo sveglio cercando di farlo cantare prima dell’alba, ma quello,  stanco,  si abbioccò.
Gli Alatresi, (forse più “scaltri”?) misero il gallo sotto un canestro;
Un paio d’ore prima dell’alba accesero dei lumi e tolsero il canestro. Il gallo vedendo tutto quel chiarore cantò. Quello “Frusulunese”  soltanto a sole levato cantò.
Ovviamente l’araldo alatrese giunse tanto lontano da raggiungere Frosinone.
In sostanza…il gallo, pur non facendo uova, come risaputo e scientificamente dimostrato, fece una bella frittata !

Ma perchè non citare un’altra versione della leggenda? Ed eccola pronta:

Per dirimere la controversia dei confini, gli abitanti di Alatri e Frosinone decisero che avrebbero fatto partire ognuno un gallo dalle rispettive città. Il confine sarebbe stato segnato nel punto di incontro delle due bestiole.
La notte prima della disputa, gli Alatresi portarono, senza farsi accorgere dai Frusinati, delle giovani gallinelle al recinto del gallo. Be’, il gallo fece il suo “dovere” (come recita uno stornello: “sapessi la virtù che c’ha il gallo, delle galline se capa la mejo, delle galline se capa la mejo, gli fa’ chicchirichi e monta a cavallo”) e al momento della partenza, sfinitto e stanco, non aveva molta voglia di correre!!

Pur se sospinto dalle grida dei frusinati fu surclassato dal giovin gallo alatrese (tenuto a “stecchetta”) fino ad arrivare all’attuale via Termini.

Essendo “leggende” c’è anche quella “piccante” !! No, no…. non pensate male!

È che si narra che gli Alatresi infilarono un peperoncino nel sedere del loro gallo che correndo disperatamente, incontrò l’avversario praticamente alle porte di Frosinone!

Sono solo storielle ….😉

 

 

(cit. Nazareno C. – Marilinda F. – Armando C.)

Se è vero che la musica è l’espressione della sensibilità umana e artistica, il saltarello è l’espressione della originalità assoulta dell’animo del popolo ciociaro. Fu questo stesso popolo infatti che iniziò a praticare canzoni d’amore e di ballo con l’accompagnamento di zampogne e fisarmoniche e dette così origine alla più antica e caratteristica danza del Lazio: il saltarello.

Già nel 1688 il poeta Giov.Camillo Peresio descrive le “movenze” di tale danza:

“…E il ballo fecer poi del saltarello al suon d’un chitarrino e un tamburello. de fronte preso da otto donne el posto otto sbarbati, e ognu’uno al bal deposto, la reverenzia in bella sfoggia sfila.
A un tempo, doppo van dè faccia accosto e presi pè le man ciascuno s’affila e il capoballo, cò un zompar giocondo serpeggia prima, e poi regira tondo”

Questo “zompar giocondo” di cui ci parla il Peresio diviene, nel corso dei secoli, l’espressione della sana allegria ciociara in occasione di sagre, di feste paesane, di fiere, di pellegrinaggi, e ancor più in occasione della seminagione, della mietitura e della vendemmia.

 Anna Maria Fiorletta. 

 

“Quattr!”, “Sétt!”, “Tutta!”

Un tumulto di numeri, braccia che sferzano l’aria, una frenetica danza di dita: questa è la morra.

L’origine di questo gioco si perde nella notte dei tempi, ma già in una tomba di un alto dignitario egiziano si nota chiaramente il defunto intento a stendere il braccio con un numero, contrapposto ad un altro giocatore. Tuttavia, è nell’epoca latina che si hanno le più chiare manifestazioni scritte: Cicerone riporta in un suo scritto la frase “dignus est quicum in tenebris mices”, ossia “è persona degna quella con cui puoi giocare a morra al buio”.

Ragazzi di ADCN che giocano a morra

Nonostante sembri un gioco semplice, il ritmo incalzante richiede un’elevata velocità di ragionamento: il giocatore deve mantenere la concentrazione, e in qualche frazione di secondo, deve essere capace di analizzare e prevedere il gioco dell’avversario. La morra può giocarsi fra due, quattro o più giocatori, purché di numero pari, in modo da poter formare due distinte squadre, poste una di fronte all’altra. I giocatori abbassano contemporaneamente il pugno destro, distendendo rapidamente una o più dita e gridando un numero tra 2 e 10. Se il numero indicato corrisponde alla somma delle dita distese (e il pugno chiuso vale 1), si segna un punto a favore di chi ha indovinato. Il punteggio da realizzare per vincere una partita viene concordato in principio dagli sfidanti, e di solito si sceglie tra due opzioni: la prima prevede due manches a 12 punti (con eventuale bella), mentre la seconda consiste in un’unica manche a 16 punti (a finì). La morra si gioca tendenzialmente con la mano destra, mentre i punti acquisiti si conteggiano con la sinistra. Realizzati 5 punti, i giocatori battono le mani per sanzionare la cinquina acquisita e per indicare l’inizio di un’altra (a proposito di questa scrocchiata di mano si usa dire “chi sculaccia non perde”).

 

In passato la morra era uno dei passatempi preferiti ma spesso, essendo oggetto di scommesse, scatenava risse. Nel XV secolo il gioco della morra venne bandito dai luoghi pubblici della Repubblica di Venezia. Oggi la morra è consentita ed è compresa tra le discipline riconosciute dalla Federazione Giochi e Sport tradizionali, associata al CONI. Resta comunque in vigore il divieto di gioco nei locali pubblici e nei circoli privati (dall’articolo 718 al 722 del Codice penale) in quanto è tutt’ora inserita nella tabella dei giochi proibiti.

di Alessio Iannarilli

Chiunque abbia avuto modo di assistere ad una nostra performance, avrà sicuramente notato quei baldi giovanotti che con i loro strumenti fanno da motore alle nostre ciocie. Ebbene sì, senza un organetto il gruppo Aria di Casa Nostra non sarebbe lo stesso.

Ma vediamo come nasce l’Organetto:

Accordeon di C. Demian

Il primo strumento a mantice di cui si ha notizia risale al 1829, anno in cui il costruttore di organi e pianoforti Cyrillus Demian ottiene, a Vienna, un regio brevetto per un originale organetto in grado di eseguire fino a quattro accordi. Lo strumento, che assume il nome di Accordeon, è dotato di un mantice azionato dalla mano sinistra, di una cassettina contenete le ance libere (riprese dal “Cheng”, un antico strumento cinese inventato ben 4500 anni fa), e di una tastiera con cinque tasti azionati dalla mano destra. Il sistema di ance utilizzate nell’accordeon è di tipo bitonico, cioè in grado di produrre determinati suoni solo aprendo il mantice e altri suoni solo chiudendolo; a uno stesso tasto possono così corrispondere due suoni differenti a seconda della direzione della corrente d’aria nel mantice.

L’accordeon di C. Demian riscuote successo ed interesse nelle varie capitali europee, ed è proprio a partire dal prototipo austriaco che i diversi artigiani sperimentano ed inventano nuovi modelli: nel 1831, a Parigi, Pichenot pubblica il primo metodo per Accordeon; nel 1840 aprono i battenti le prime fabbriche in Russia. Sempre più l’Accordeon e mantici affini diventano sinonimo di strumenti della musica popolare. In questo periodo lo strumento viene continuamente modificato, per migliorarne le capacità sonore. Viene ampliata la tastiera di destra (fino a 14 tasti su una sola fila, poi fino a 27 su due file) e, per eseguire brani melodici, si sostituiscono gli accordi completi con singole note. Viene aggiunta un’apposita valvola di presa d’aria; si aggiunge una cassettina sul lato sinistro con ulteriori ance, e relativi tasti, per produrre sia le note di basso sia gli accordi necessari ad accompagnare le melodie realizzate con la tastiera di destra. Molte di queste innovazioni tecniche sono da attribuire, oltre che allo stesso Demian, a costruttori francesi e tedeschi che, tra l’altro, estendono anche la gamma sonora dell’accordeon fino a tre ottave, prima nell’ambito della scala diatonica e poi di quella cromatica. Altra innovazione significativa riguarda il numero di ance (ugualmente intonate) messe in funzione da uno stesso tasto. Dal sistema di base, che prevedeva per ogni tasto una sola “voce” (ancia) a doppia azione (bitonica), si passa alle due e poi alle tre voci per tasto, intonate sulla stessa nota, anche in ottave diverse (voci bassa, normale e acuta), consentendo così l’introduzione dei “registri” (variatori di timbro sonoro).

Museo Internazionale della Fisarmonica (Castelfidardo)

In Italia questo strumento inizia a diffondersi verso la metà del XIX secolo e sono proprio i costruttori italiani che introducono l’ancia di tipo unitonico (che produce la stessa nota, indipendentemente dal movimento del mantice). Una leggenda narra di un pellegrino austriaco che di ritorno dal santuario di Loreto chiese ospitalità per la notte presso il casolare di Antonio Soprani, nelle campagne di Castelfidardo. Il pellegrino aveva con sé una “scatola musicale” che muove la curiosità di Paolo Soprani, figlio maggiore di Antonio. Il giovane Paolo scompone lo strumento, studia il funzionamento intuendone subito la possibilità di costruirne altri. Di lì a poco sarebbe nata l’industria italiana della Fisarmonica.  Da questo momento in poi, la fisarmonica diatonica (organetto) ha un nuovo “compagno”: la moderna fisarmonica cromatica, conosciuta semplicemente come fisarmonica, che si diffonde in tutta Europa e nel resto del mondo, grazie alla completezza delle sue capacità melodice e armoniche, ulteriormente migliorate grazie all’introduzione della tastiera melodica tipo pianoforte. La costruzione di organetti si espande a ritmo vertiginoso tra il 1870 e il 1900. Nel 1924, un primo censimento delle fabbriche di fisarmoniche e organetti ne individua in Italia ben 93 su un totale di 232 in tutta Europa. Oggi il numero dei costruttori italiani si è ridotto appena a una trentina, di cui solo una decina continua a produrre organetti.

Suonatrici di Trikitixa

Come ben sappiamo questo strumento è utilizzato in particolare nel Centro-Sud Italia, ma la fisarmonica diatonica e alcuni suoi derivati sono utilizzati in molti paesi come Francia, Svezia, Germania e in Spagna, soprattutto nei Paesi Baschi dove viene utilizzata un particolare tipo di fisarmonica diatonica (la trikitixa). In Louisiana (USA) viene utilizzata per suonare la musica cajun di origine francese; è parte integrante e fondamentale della tradizione musicale in Irlanda (anche se è organizzata su scale diatoniche). Una nota particolare va all’organetto diatonico brasiliano, utilizzato nella Música Popular Brasileira, che è praticamente identico a quello italiano. Si chiama “Gaita de botão” (bottone) oppure “Gaita-ponto” e alcune varianti presentano otto bassi.

Organetto

La nascita, l’evoluzione e la diffusione di questo strumento ci offrono spunti per rivalutare le nostre idee di “identità” e “tradizione”. Ritenuto infatti lo strumento tradizionale del Centro-Sud Italia, tuttavia l’organetto incorpora la cultura di tutti i luoghi che ha visitato: dalla Polonia a passo di Polka, fino ad arrivare oltralpe a tempo di valzer viennese. La nostra storia, fin dall’impero romano, ci insegna che ciò che noi vantiamo essere “tradizionale” e “autoctono”, ritenendo quindi pericoloso per la nostra identità nazionale tutto ciò che è “diverso”, in realtà non è altro che il risultato di integrazione e intreccio di culture apparentemente inconciliabili tra loro, dimostrando che, tutto sommato, la Ciociaria non è poi così lontana da Rio de Janeiro!

di Alessio Iannarilli

 

[…] Ecco infine i «ciociari!» Uomini e donne del paese dei sandali.  Vengono probabilmente da qualche villaggio vicino a Ferentino, forse da più lontano, dalle frontiere napoletane, dalle sponde del Liri o del Melfa.

E’ un paese di splendidi monti dall’aspetto selvaggio, che si stendono da Ferentino in su verso le province napoletane. Il popolo là porta le «ciocie», calzatura molto semplice che dà al paese il nome di «Ciociaria.» Trovai in uso questa calzatura anche prima di Anagni.

Impossibile concepire una calzatura più primitiva, e si può anche dire più comoda di quella: ed io ho sinceramente invidiato ai ciociari le loro ciocie.

Esse consistono in una semplice suola di cuoio di asino o di cavallo forata; si avvolgono intorno al piede e si fissano per mezzo di cordicelle passate attraverso ai buchi, in modo che il sandalo quasi lo fascia; la gamba poi è avviluppata sino al ginocchio da strisce di tela grigia.

Così calzato il ciociaro si muove liberamente nei campi e sui monti, dove zappa la terra o conduce a pascolare le sue pecore e le sue capre, vestito del suo bigio mantello, o di una pelle di montone, con la piva appesa al fianco. Si vede subito che quei sandali sono classici.

Diogene li avrebbe certo portati, se non fosse andato a piedi nudi, e Crisippo ed Epitetto li avrebbero potuti celebrare in un trattato sulla semplicità del saggio e sulla sua moderazione dei desideri. […]
di Ferdinand Gregorovius

  (da Passeggiate per l’italia Vol. I, Roma, Carboni Editore, 1906)

Comunicazione da parte del nostro Presidente: invito in una determinata città, per un dato evento.
Una volta verificata e confermata la disponibilità seguono le prove: balli, canti, scenette, sfilate.
Qualche giorno prima della partenza la costumista ci comunica i vestiti da indossare a seconda delle occasioni. Quindi prepari la valigia e controlli mille volte che hai messo tutto, soprattutto le ciocie: fondamentali.
Arriva il giorno tanto atteso; ci si incontra al solito posto: alcuni puntualissimi, altri in perenne ritardo.
E qui le situazioni che si prospettano sono diverse.

Se si viaggia con l’autobus ed è mattina proviamo a recuperare qualche minuto di sonno; se c’è Mirko invece,  ciò non è possibile perché vive con l’organetto “in spalla” ed è capace di suonare per tutto il viaggio anche quando questo è lungo, mooolto lungo!
Ricordo perfettamente la trasferta al Festival dei Trulli di Alberobello:

Siamo partiti alle 7 la mattina e quando siamo arrivati nel tardo pomeriggio, Mirko stava ancora suonando: e si può immaginare facilmente come abbiamo reagito.

Se si viaggia con l’autobus e partiamo di notte proviamo a dormire per affrontare la giornata successiva. Insomma queste situazioni non sono poi così diverse, pensandoci. Ma posso negare l’evidenza ed assicurarvi che non siamo dormiglioni!

Se invece dobbiamo partire con le nostre macchine, la situazione è diversa a seconda delle compagnie: con alcuni chiacchieri del più e del meno, con altri potresti azzardarti ad aprire un dibattito politico, con altri ascolti solo musica (anche l’organetto, sì) e con altri dormi. Ma no… sto scherzando… questo succede al ritorno.

Comunque, una volta arrivati a destinazione la prima cosa da fare è prendere il caffè e non importa se è tardi, se ci aspettano, se siamo sperduti sui monti: il caffè ha la priorità con ovvio borbottio del nostro Presidente….

Adesso inizia il bello: ci si deve cambiare. Di solito noi ragazze entriamo per prime, ci fanno credere che il motivo sia la “privacy”, in realtà lo sappiamo tutti che ci mettiamo più tempo; permettetemi di precisare che non è perché siamo lente ma perché il nostro vestito è composto da più pezzi e ci vuole il tempo che ci vuole. Come dimostra il fatto che alla fine, quando ci ri-cambiamo lo facciamo tutti insieme e noi comunque finiamo per ultime. Ma non è questo ciò di cui voglio parlare.

Una volta pronti ci immergiamo completamente nel folklore: le ragazze prendono le conche e i ragazzi le aspettano porgendo la mano, per formare la fila e iniziare lo spettacolo. Ci piace essere ordinati durante le sfilate e ci sono delle disposizioni precise, che possono variare a seconda del posto e del numero di persone; in generale seguiamo quest’ordine: Labaro, ragazze con i conconi, orchestra, coppie e l’immancabile coppia sotto l’ombrello. Balliamo, cantiamo, ci divertiamo, le persone sono contente e noi più di loro. Amiamo quello che facciamo e non ci interessa se poi ci faranno male i piedi, se abbiamo preso troppo freddo, se durante la giornata abbiamo litigato e ci sono state incomprensioni perché alla fine il risultato è sempre lo stesso: essere orgogliosi e soddisfatti di portare in giro per l’Italia ed il mondo il nome di Alatri e della Ciociaria, delle nostre tradizioni; camminare, come dico sempre, “ciocie ai piedi e testa alta”; sentirsi parte di una grande famiglia, stare a contatto con persone molto diverse da te che possono piacerti o no,  ma devi ammettere che ti lasciano qualcosa. Probabilmente questo è l’obiettivo che Aria di Casa Nostra persegue inconsciamente, al proprio interno: prima dello scambio con altre culture ed altre tradizioni, c’è lo scambio tra di noi e significa che ognuno lascia (e riceve) un pezzetto di sé ad (e da) ogni altro membro del gruppo.

Il momento che più mi coinvolge di ogni trasferta,  è il ritorno: sappiamo tutti che appena dalla curva spunta Alatri bisogna intonare l’inno, come da tradizione. E così si concludono queste fantastiche giornate, ancora con un momento di condivisione, di folklore, di passione e di orgoglio: Evviva Alatri, sei un vero incanto!

Carla Scarsella

Tra le molteplici tradizioni della Ciociaria quella che incarna maggiormente lo spirito passionale e spensierato della nostra terra è, senza dubbio, la serenata prima delle nozze.

Immaginate che mentre state provando l’acconciatura per il grande giorno, o facendo l’ultimo orlo al vestito, una voce in lontananza, accompagnata da un organetto, vi inviti ad affacciavi alla finestra. Ebbene si, è il vostro futuro sposo che vi sta dedicando una canzone d’amore.

La serenata prima delle nozze è un’usanza che ha origine nel Medioevo ma che ancora oggi è praticata nel Centro e Sud Italia, ritenuta in alcune zone patrimonio culturale indispensabile.

Se per la sposa il tutto si svolge in un tanto frenetico quanto emozionante momento, per lo sposo l’organizzazione dell’evento richiede una pianificazione attenta ed elaborata. Ma attenzione! La sposa non deve accorgersi di nulla.

Un ruolo fondamentale per la buona riuscita della sorpresa, lo svolgono parenti e amici. Lo sposo, giorni prima della serata prescelta, arruolerà i suoi migliori “soldati” per accompagnarlo in questa impresa: scegliere chi distrarrà la sposa e selezionare le migliori ugola della sua compagnia, sarà una fase imprescindibile della preparazione.

Ci siamo, è giunta l’ora!

Lo sposo e tutti i partecipanti si sono dati appuntamento a pochi passi dall’abitazione della fanciulla e, complici il buio e la notte, arrivano “frugni frugni” (Ndr. quatti quatti) sotto la finestra della sua camera.

“Alzati bella mia se ti sei coricata
sopra a sto letto mettiti a sedere,
Ascolta chi ti fa la serenata
qua sotto c’è un ragazzo che ti ama,
[…]
Qui sotto c’è un ragazzo che ti vuole sposare
se tu lo vuoi gettagli una rosa”

Momento di suspense, la musica si ferma, tutti tacciono: la ragazza getterà la rosa? Certo che si!

A questo punto l’innamorato (se abbastanza fortunato da non dover raggiungere l’ultimo piano di un grattacielo) arriverà dalla sua ragazza arrampicandosi su una scala a pioli. Ora sono gli amici a cantare:

“Oh mia *nomedellaragazza* oh che bellezza
col fiore hai dato a *nomedelragazzo* la certezza,
Con questa rosa che hai buttato alla finestra
hai fatto si felice l’innamorato.”

Ma…

“Noi non vogliamo più star qua fuori
Se ci fai entrare ti canteremo ancora
quattro stornelli e ti ringrazieremo,
E ti ringrazieremo per festeggiare ancora
per festeggiare insieme questo amore.”

Ed ora? ” Mica vulet lassa’ tutta sta gent senza magna’…” Tranquilli, la mamma ciociara è all’opera da giorni.