Dal libro “Vecchia Alatri”, pubblicazione fortunata del nostro Sor Flavio riprendiamo un breve appunto storico.

…Nel 1900 il regolamento di Polizia urbana faceva divieto ai veicoli di entrare in città dopo il tramonto del sole: per cui la maggior parte dei venditori ambulanti, che tra l’altro dovevano coprire rispettabili distanze, quasi sempre erano costretti a bivaccare in località la Donna, pur impiegando tutta la buona volontà per giungere in tempo, anche ad evitare nel buio spiacevoli incontri con tipi affatto raccomandabili. Certamente dopo il lungo viaggio l’appetito non mancava e non mancava nemmeno l’iniziativa di persone di allestire, ed ogni anno sempre meglio, baracche ove si potessero consumare, per la circostanza, appetitosi “pullastri, puparoi e belle ciammotte” con larga mescita di vero vino casareccio. E siccome il canto ed il suono non possono mancare in certe circostanze, ecco venir oggi fuori l’estro poetico e umoristico musicale di Giovanni Ricciotti e di Gerardo Celebrini, due animatori delle tante iniziative all’epoca. A quanto si apprende dai vecchi, la serie fortunata di questa festa, diventata tradizione per Alatri, si affievolì quando incominciò il concerto degli obici e delle mitragliatrici della prima guerra mondiale che impegnò tutti alla difesa del territorio nazionale.

Il Natale a casa mia era come un pendolo che oscilla incessantemente tra un sano e genuino spirito natalizio e un “l’ faciam purché s’ tè da fa’”, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, della speranza di non svuotare il dindarolo come ogni anno alla tombolata con gli zii.
La preparazione degli addobbi, il sentirsi ogni anno più grande perché mancava sempre meno a riuscire ad arrivare a mettere il puntale sull’albero, quell’inspiegabile libidine che si provava nel premere il pallino rosso sul telecomando che, come per magia, faceva accendere tutte le lucine della casa, quella puzza di bruciato perché qualche lucina si era surriscaldata troppo e aveva mandato a fuoco il muschio nel presepe, le urla della nonna che inveiva contro il nonno con un sonoro “si più uttr’ di issi”…

Il giorno più bello per noi bambini era senza dubbio quello della Vigilia.
Il suono degli zampognari tra i vicoli di Alatri rendeva meno traumatica la sveglia di buon mattino perché tua madre, armata di parannanza e scopettone, ti veniva a svegliare per farti mettere in ordine la camera, ché la sera c’era gente.
Lo scambio dei regali, la recita della poesia e le mille lire sotto il piatto (che poi arrotondavi con qualche altro spiccio concesso dal nonno sottobanco), la saraca condita, il primo panettone (primo di una lunga ed interminabile serie) e poi tutti di corsa a messa, con l’ansia che Babbo Natale arrivasse prima del tuo rientro.

Se la mattina del 25, sotto l’albero, ti aspettava più di qualche sorpresa (perché Babbo Natale le tue letterine evidentemente le perdeva ogni anno), ciò che non era una sorpresa, puntuale come un treno in Giappone, era tua nonna che, alle sette di mattina, suonava alla porta con un piatto fumante di frittelle fatte con la pastella avanzata delle particelle fritte destinate al pranzo.

Dopo ore ed ore di devota preparazione, eccolo: il pranzo di Natale!

Quello che sai quando ti siedi, ma nessuno sa quando, se, ti alzerai da tavola; quel pranzo che ogni anno “so’ fatt’ propria du’ cosette” e poi appena arrivi la nonna ti mette davanti le già citate particelle di cime e baccalà per preparare la mandibola e la stracciatella col brodo di gallina per riscaldare lo stomaco. Ma non è festa senza timballo, che per l’occasione si è trasformato nell’Empire State Building delle leccornie. Ma du maccaruni co zic sughitt “legger legger” ‘n ci gli mitti?! Ma si, magna che va p l’anima dei morti!
E poi: il lesso della gallina già nominata prima (purché è puccat ittalla), l’arrosto misto, le patate, i broccoletti che “sgrassano”…dopotutto, chell che ‘n ‘ntorza ‘ngrassa!

Chi ce l’ha fatta arriva al dolce: il panpepato, gli struffoli, i quadrucci, i tartalicchi, le ciambelline ruzze azzuppate al vino di nonno, la ratafia casereccia, la genziana di zio, il limoncino del vicino, la tombolata con le lenticchie sulle cartelle, il panettone che ha portato la zia, quel comico di tuo cugino che grida “Ambo!” ed è uscito solo un numero, le lenticchie che si spostano in continuazione dalle caselle e qualcuno che chiede se il 23 è uscito, “Undici! Zeppetti”, le storie e le leggende della gioventù, di quando c’era la guerra e di quando si stava lontani da casa per il servizio di leva, quelle storie che ormai sapevamo tutti a memoria, ma che pagheremmo per sentirle ancora, quelle storie e quei ricordi che sono un modo per incontrarsi, per riviversi, per non perdersi e che a Natale, puntuali come lo era la nonna con le frittelle, tornano a galla e ti aspettano, a braccia conserte e con il piede martellante, sotto l’albero, tra panettoni e cesti regalo.

 

Giulia D’Alatri

Cosi scriveva molti anni fa il nostro Sor Flavio; una riflessione che se pur datata potrebbe risultare attuale ai cultori delle tradizioni popolari, e come ricordava sempre: nel folklore e nella danza c’è l’animo di un popolo:

“Oggi il folklore ed il ballo italiano sono come li descrisse il piemontese Vajra «i grandi decaduti”: questa l’affermazione che si riscontra nel’ importante saggio sulla danza tradizionale.
ln verità non si può far storia delle religioni, della musica, del teatro, delle tradizioni popolari senza tener conto del folklore in genere e della danza in particolare.

Se noi consideriamo la condizione e la funzione della danza nella società italiana e la confrontiamo con la posizione che occupava e la considerazione in cui era tenuta nei passati secoli, dobbiamo senza meno riconoscere quel che asseriva il Vajra nel 1875, epoca in cui i veglioni carnevaleschi costituivano ancora un avvenimento popolare di grandissimo rilievo; epoca in cui non c’era manifestazione, non c’erano nozze che non terminassero con il tradizionale ballo: oggi tutto sembra esaurirsi e con rammarico si assiste alla discesa di questi valori coreutici e folcloristici.
Quando poi al posto occupato dalla danza nel folclore, anche se ormai in molte regioni non occupa più la posizione di grande rilievo che aveva un tempo, essa è pur sempre legata alle più pure espressioni tradizionali sia per il ciclo della vita umana, sia, e principalmente, per i lavori agricoli.

Ma è il caso di domandarci cosa sia stato fatto in Italia nora di veramente serio per una conoscenza storico-critica, basata su documenti, registrazioni di canti e di musiche per danze, affidate ai modernissimi mezzi sonoro-acustici e se anche per tutto quanto concerne il folklore contemporaneo?
Poco, pochissimo, eccezion fatta per qualche e registrazione di motivi ristretti ad una sparuta cerchia di paesi quando invece l’Italia, dalla Sicilia alla Sardegna, dalla Lombardia alla Ciociaria, alla Calabria è tutto un campo fertile per riportare alla luce motivi musicali di danze e cori come mezzo idoneo, il più adatto all’affermazione dei valori intrinseci del nostro folclore.
Si sente dire… “che bei costumi…che bei canti..che belle danze”; si vedono sorridere gli occhi per la gioia, quando inizia uno spettacolo di folclore ma più di questo nulla, mai nulla.

Eppure un grande figlio della Ciociaria, Anton Giulio Bragaglia, ha speso tempo prezioso per dedicarsi ad uno studio particolareggiato del folclore e della danza <Danze popolari italiane>  per offrircelo a ricordo di tempi non superati ma rimpianti dalla maggioranza.

Questo libro è l’immagine di uno studio profondo, condotto con un rigore critico: una ricca messe di dati, di notizie, frutto di lunghe, pazienti ed utili ricerche.
In Italia e quindi anche in Ciociaria, la zona che maggiormente ci interessa ed alla quale tanto teniamo, occorre intraprende seriamente studi sul nostro folclore e sulle nostre danze.
Occorre riportarle in “auge” per offrirle ai tanti turisti che visitano le nostre zone come il miglior ricordo di questa nostra terra ciociara ed in questo sforzo non sia inutile ricordare che l’Italia, che oggi è invasa dalle danze straniere, dal valzer alla polka, dal tango al rock and roll ora al madison, nei secoli ha insegnato il ballo a tutta Europa.

Non sarebbe male se tutti gli intenditori prendessero l’iniziativa di compiere studi in tal senso, di far incidere appositi dischi, riportare a nuovo i nostri canti dell’aia, dei campi formare gruppi di danzatori, di cantori del folclore. Saranno i responsabili e gli esperti a sancire queste forme di rieducazione popolare attraverso ampi e sereni dibattiti. Quanto verrà fatto per promuovere sul piano pratico lo studio della danza popolare italiana, ed in particolar modo ciociara, costituirà un contributo prezioso per la messa in valore di una delle espressioni più spiritualistiche ed esteticamente felici delle geniali qualità artistiche del popolo italiano. Abbiamo visto gruppi folcloristici esteri organizzati a spese dello Stato: parlo dei gruppi iugoslavi, polacchi, francesi, cecoslovacchi, spagnoli: non ne abbiamo incontrati in tal senso italiani. E’ davvero una lacuna riprovevole.

Il Gruppo Folcloristico di Alatri, che continuamente visita città italiane ed estere, sa il valore della bellezza della danza e del folclore italiano, principalmente ciociaro, dei canti e delle danze ciociari, perche sono gli applausi incondizionati, i premi conseguiti, i rinnovati inviti che testimoniano quanta simpatia in ogni contrada di Italia esista per la nostra Ciociaria: il nostro folclore, così come dicono i giornali, è addirittura “signorile”.
E noi, lungi dai ronzii di questa dannata vita moderna, ci dovremmo sentire invitati ad un ritorno alla serenità, alla pace, ai nostri campi, cosi come accadeva anticamente quando tutte le mamme, attorno al focolare, ove crepitando si consumava un vecchio ceppo, raccontavano le favole che ci facevano più buoni, più sereni fino a farci cantare, a farci danzare spensieratamente.
Tempi scomparsi, ma che potrebbero tornare con la buona volontà di tutti, se davvero ci sentissimo custodi delle nostre belle e pure tradizioni popolari una volta ritrovatele: e ciò principalmente per la valorizzazione di questa nostra troppo depressa, ma tanto amata terra ciociara.

 “Sor” Flavio Fiorletta

16/07/14 – 04/10/2007

Una delle peculiarità dei piccoli paesi come Alatri è sempre stata quella..

Gli Statuti comunali, di grande importanza per lo studio topografico dell’abitato, oltre ad essere una ricca fonte di notizie ed indicazioni su palazzi, case e chiese di cui spesso non rimane che il toponimo, sono una testimonianza fondamentale per capire l’organizzazione civile ed amministrativa della città.

Alatri era divisa in due zone: la Civitas Vetus e le Plagae. Con il nome di Civitas Vetus si intendeva genericamente la parte nord-ovest della città, dove si svolgeva l’antico abitato romano, mentre era chiamata Plagae la parte a sud-est dell’acropoli, dove il terreno era più scosceso e friabile.

La zona delle Plagae era costituita da quattro carcìe (quartieri):
S.SIMEONE: compare nei documenti del XIV secolo dell’Archivio di Trisulti, una volta a proposito della vendita di alcuni casaleni, poi per l’acquisto di gelseti posti in questa zona; vi è infine la notizia riguardante un certo Cicco Petrucci, che in cambio di una terra, ricevette dal Monastero di S. Bartolomeo di Trisulti, una casa con ferraginale nella carcìa S. Simeone. Di questa zona rimane il toponimo nell’odierna via S. Simone.
S.ANDREA: la carcìa è nominata in un documento del 1308 a proposito di ferraginalia posti iuxta muros civitatis in carcia S. Andrea.
SPEDINI e S. LUCIA : di queste carcìe non rimane alcun documento.

La zona rappresentava  il quartiere povero della città.
Dalla posizione stessa in cui si trovava, sul lato più scosceso del monte, in forte pendenza, si può facilmente immaginare che nei periodi di pioggia gli stretti vicoli, che si dipartivano dall’asse principale, con un groviglio di scale, si trasformassero in torrentelli di acqua e fango carichi della sporcizia delle zone più alte.
Il tessuto urbano, fitto e compatto si è andato sviluppando lungo l’asse principale, l’odierno corso Garibaldi, ed intorno alle chiese di S. Silvestro, S. Lucia, S. Andrea e S. Simeone, lasciando una larga fascia disabitata lungo le mura urbane dove dovevano esservi orti ed appezzamenti di terreno
(nei documenti si parla di ferraginalia e gelseti).
Nella stessa zona dovevano trovarsi le chiese di S. Simeone e  S. Lucia, dalle quali prendevano il nome le due carcìe omonime. L’ubicazione di queste due chiese è incerta. L’odierna chiesa di S. Lucia, infatti, in una mappa urbana di Alatri del 1819 è indicata con il nome di S. Simeone.
Sempre nella stessa mappa, presso corso Garibaldi, su vicolo della Campana, è segnalato con la lettera “S” un edificio religioso detto chiesa ex parrocchiale di S. Lucia e con la particella “R” è segnalato il cimitero della chiesa stesso.
In un’altra mappa urbana di Alatri del 1875, il tratto di corso Garibaldi adiacente all’edificio siglato “S” compare con il nome di via S. Lucia, mentre la strada che porta alla piazza con l’odierna chiesa di S. Lucia è nominata S. Simeone.
Vi è la certezza quindi che le chiese dovevano essere due, in quanto, oltre alle sigle che troviamo nelle piante, nelle decime degli anni 1328-29 si nomina l’ecclesia S. Lucie e l’ecclesia S. Symeon de Alatro. Data la collocazione dubbia della chiesa di S. Lucia, anche il trivium Sancte Lucie, dove nei giorni di mercato omnes piscarii aut pisciovenduli…possint…pisces portare ad trivium, non è ben identificabile.

Della chiesa di S. Andrea non è rimasto che il nome in una piazzetta in fondo a corso Garibaldi; la chiesa doveva affacciarsi proprio sul trivium Sancti Andree.

Un’altra chiesa, situata quasi nel mezzo delle Piagge, è quella di S. Silvestro. La chiesa conserva ancora una cripta del X-XI sec., epoca a cui si deve far risalire la sua edificazione.
Dalle Piagge si accedeva alle campagna tramite le due porte S. Nicola e Portadini.

Nella zona delle Piagge gli edifici erano prevalentemente di architettura modesta, di una tipologia edilizia molto semplice rimasta immutata per secoli, tanto da rendere problematico il riconoscimento delle strutture medioevali.  Queste case venivano costruite molto rozzamente con blocchetti di calcare irregolari misti a malta e raramente ci si trova di fronte ad edifici sicuramente databili. Due erano le tipologie dominanti: l’edificio ad uno o due piani con profferlo d’entrata ed ambiente sottostante e l’edificio a più piani con due ingressi a livello stradale.
La zona ha subito grossi danni durante la guerra.
Notevoli sono stati i cambiamenti della viabilità originaria.
Lo sventramento di numerose case, a causa della guerra, forma degli spiazzi una vola inesistenti; si notino, inoltre, la demolizione della chiesa di S. Andrea, dove oggi si apre una piazza, e la costruzione di una nuova strada che passa dietro alla chiesa di S. Silvestro. La zona, invece, che mantiene ancora abbastanza intatta la sua antica conformazione è quella presso la porta S. Nicola, dove si trova il vicolo Morutti. Il nome di questo vicolo derivato da “Mura rotte”, deriva da una breccia nelle mura poligonali praticata durante una invasione nemica nelle vicinanze del vicolo.

Notizie tratte da:
ELISABETTA DE MINICIS, Alatri in Lazio Medievale, ricerca topografica su 33 abitanti delle antiche diocesi di Alatri, Anagni, Ferentino, Veroli, Roma 1979, pp. 1-23.

Sulla strada Santa Cecilia, immersa nel verde delle campagne alatrensi, ai piedi di un piccolo colle, il Monticchio, c’è un edificio comunemente chiamato Castello, ma che castello non è.
Informazioni sulla storia e soprattutto sulle caratteristiche della struttura si possono trovare online, ciò che qui viene messo in evidenza è invece l’aspetto socio-economico che la presenza del “castello” ha avuto nel nostro territorio.

Nasce come “grancia”, cioè deposito di grano, ma il termine viene utilizzato successivamente per definire il complesso di edifici costituenti un’azienda agricola.
Infatti la sua funzione era ancora più ampia, in quanto vi lavoravano numerosi contadini del territorio.
Oltre alla produzione di cereali, si allevavano bovini, suini e ovini, si produceva vino, tabacco, frutta e olio, molito direttamente dal frantoio aziendale e che veniva conservato in otri di terracotta di grande capienza.
In più, la fiorente attività era resa possibile dalla realizzazione di un laghetto artificiale e di un impianto di irrigazione ancora visibili.

Per quanto riguarda i cereali in particolare, la grancia disponeva di macchinari per la selezione di sementi così articolata: una prima selezione per le future semine, la seconda per la produzione di farina e un’ultima per alimentare il bestiame.

Altra caratteristica dell’attività nel castello era la presenza della “ritorna”, un manufatto circolare in sassi (usato per domare i cavalli) che nei caldi pomeriggi di estate era luogo di ristoro e riposo dei contadini prima di riprendere il lavoro.

A conferma dell’importanza rivestita dal castello, in tempi in cui l’agricoltura era la principale attività del territorio, il duro lavoro dei coloni e la lungimiranza dei proprietari sono stati premiati con vari riconoscimenti di eccellenza a livello nazionale dagli enti preposti.

Tutte le attività lavorative della grancia erano ben organizzate e coordinate dall’amministratore, nonché mio nonno: infatti proprio da questo ruolo deriva il soprannome della mia famiglia: “i Ministr’”.

Attualmente il castello è di proprietà privata e non vi è possibilità di accesso e personalmente lo ritengo un vero peccato!
Sarebbe bello e istruttivo poter visitare quel che in passato era il fulcro della vita contadina di questa contrada.

Per approfondire lo Statuto del “castello” basta un click QUI.

Carla Scarsella

Macchine e tecnologie

Da alcuni documenti reperiti presso l’Archivio Comunale di Alatri, si trova notizia di una richiesta fatta al Sindaco della cittadina da parte del Presidente della Camera di Commercio di Frosinone, il quale a sua volta, avendo ricevuto disposizioni da parte del Comitato dell’Inchiesta Industriale sulla fabbricazione delle macchine per la lavorazione della lana, designata dal Ministero delle Finanze, pone ai Sindaci della circoscrizione due quesiti, atti a stabilire il numero di macchine utilizzate per anno nelle industrie laniere ed il numero di queste provenienti dall’estero.
Scopo di tale inchiesta era quello di stabilire, in base alla quantità di macchine utilizzate, se fosse giustificato l’impianto di una fabbrica che producesse macchine per la lavorazione della lana, e che naturalmente il numero di commesse d’ordine potesse assicurare e garantire a quest’ultima una produttività continuativa [dati11; dati12].
I dati forniti in riscontro dal Sindaco di Alatri Salvatore Colazingari in una missiva del 13 gennaio 1874, evidenziano l’esistenza nel Comune di 11 fabbriche tessilo-laniere che complessivamente utilizzavano 64 “macchine”, delle quali 24 “filiere”, 10 ”tentase”, 11 “platelle”, 10 “lupette” e 9 “carzerie”, tutte acquistate nella vicina provincia di Napoli e quasi sicuramente di manifattura nazionale.
Nella stessa nota viene anche sottolineato che se le “fabbriche di lana” prima del 1870,  godevano di un discreto volume di affari, in quel periodo (4 anni dopo) l’attività produttiva era notevolmente diminuita, soprattutto a causa della concorrenza delle fabbriche delle vicine province napoletane, che avendo installato macchine a vapore, riuscivano a contenere i costi di produzione, con il conseguente sensibile abbattimento dei prezzi di vendita del prodotto finito.

Negli stessi documenti si trova notizia di alcune fabbriche per la lavorazione della lana, dotate di macchinari simili a quelle alatrine, anche in altri Comuni del circondario di Frosinone [dati13].

Un interessante spaccato della situazione, a livello del controllo della qualità dei prodotti dell’arte lanaria alatrese, ci venne fornito da alcuni documenti relativi ad ispezioni e contenziosi dei primi decenni dell’ottocento. L’articolo primo del “motu proprio 1° aprile 1817” stabilisce che “Il Nobil collegio dei fabbricatori e dei drappi di lana sarà d’ora innanzi rappresentato dall’Ispettore Generale, sei Deputati, e da un Depositario […]. Saranno dessi responsabili della precisa esecuzione delle Leggi pubblicate con il ricordato motu proprio, e di quelle che nuovamente si aggiungono, non meno che dell’amministrazione dell’ entrate”.In applicazione di questo articolo l’ufficio del bollo e revisione di Alatri istituì una commissione di vigilanza, che attraverso ispezioni e verifiche, tutelasse il processo produttivo dei tessuti di lana. Per ogni ispezione veniva redatto dal vigilatore un verbale nel quale erano descritte le eventuali irregolarità riscontrate. Il 23 novembre 1822 Francesco Bottini, vigilatore dell’ufficio del bollo e revisione dei drappi di lana di Alatri, effettua un controllo presso la fabbrica di Vittorio Tagliaferri e chiedendo allo stesso “se aveva la patente da Tintore voluta dall’articolo 7 del primo motu proprio, ha risposto di non averla”; continuando nell’ispezione Bottini trova poi “un Taglio di Pannetto bianco senza alcun marco, il quale,  a forma dell’articolo 6 dell’Editto del 30 dicembre 1818 è caduto in frode” [ispezioni1]. Il verbale viene redatto alla presenza di Domenico Cialone detto “Bianconi” e Sisto Antonio Sabellico.

Altra ispezione, il 27 novembre 1822, viene fatta al tiratore Carlo Sabellico e nel corso di questa, Bottini trova “una mezza paccotta di color rubino di nuova garzata, ritinta, a cui vi è apposto il Bollo Inferiore colla marca G.C., (detta mezza paccotta); è incorso nella penale a norma dell’articolo 14 del secondo motu proprio, nonché all’articolo 10 della Notificazione dei 23 marzo 1821” [ispezioni2]; il vigilatore compila il verbale alla presenza dei testimoni Michelangelo Quattrino e Arcangelo San Severino. Il giorno seguente, Bottini effettua un controllo nell’abitazione di Barnaba Chingari “circa un’ ora e mezza di notte,… ed ho trovato che il medesimo teneva sopra il foco il caldaro bollente con droghe ad oggetto di tingere; osservato ciò,  ho fatto delle ricerche entro la detta abitazione, ed ho rinvenuto una matassa  di trama ritorta Moretta, un paio di calzette bianche di lana ed un paio di calzoni vecchi ritinti, quali sono stati restituiti; il suddetto Chingari, perché non monito di patente voluta all’articolo 28 del primo moto proprio,  è incorso nella penale; alla presenza de’ testimoni  Sisto Toti e Alessandro De Santis,  ho formato il presente processo verbale” [ispezioni3].

Il 6 dicembre 1822 Bottini dichiara in un verbale di ispezione: “Io sottoscritto Vigilatore nell’Ufficio di Bollo e Revisione a richiesta del Signor Giovanni Martufi Fabbricatore Patentato mi sono portato fuori di Porta S. Pietro per rinvenire due suoi lavoranti “Cardalana”, cioè Crescenzo Fiorletti e Pietro Quattrino, i quali si hanno fatto lecito di andare a lavare dei panni al Fabbricatore Signore Giovanni Di Fabio; e difatti, portatomi fino alla Madonna delle Grazie, ho incontrato i medesimi che portavano dei panni sopra il cavallo, e gli ho richiesto alla presenza de’ Testimoni Silverio Tagliaferri e Domenico Antonio Misilli se avevano il benservito o licenza del loro padrone, hanno risposto non averla; stante ciò il suddetto Di Fabio è incorso nella penale a forma dell’articolo 29 del secondo Moto Proprio” [ispezioni4; ispezioni8].

Il tintore alatrino Giacomo Mascetti, venuto a conoscenza delle ispezioni fatte dal vigilatore Bottini a Tagliaferri e a Chingari, sporge denuncia contro Tagliaferri [ispezioni8] e si rivolge al Cardinale camerlengo dicendo che non passerà molto tempo prima che questi signori chiedano la patente di tintori e afferma, riferendosi a Tagliaferri: ”Ma dove mai si è veduto aver questo signore fatto il Tintore? Dove si è udito avere egli apportato questa perfezione? Certamente si chiamerà un guasta mestieri,  io ne risento dispiacere, perché vedo, non dico per vanto, troppa ardita la mia abilità” [ispezioni5]; e riferendosi a Chingari: “Le si presenterà a tale oggetto anche un certo Barnaba Chingari. Questo ancora si vanta tintore […]. Sarà giusto concedere loro la patente, se uguaglieranno l’abilità di un perfetto tintore” [ispezioni5]; e si dichiara poi preoccupato perché concedendo le patenti di tintore a persone di dubbia perizia e competenza, verrebbe messa in pericolo l’arte della categoria dei tintori.

A tutela e garanzia della qualità dei tessuti esportati dalle fabbriche dei drappi di lana dello Stato Pontificio, vennero istituite apposite norme e decretate specifiche leggi per l’apposizione sui manufatti di particolari marchi chiamati “bolli dell’arte”, allo scopo di impedire che si vendessero per buone le stoffe difettose, recando danno al nome dell’industria che era generalmente considerata di ottima qualità.

 

Notizie tratte da:

GENI COSTANZO, Aspetti della Politica industriale pontificia tra XVIII e XIX secolo: il caso di Alatri (tesi di laurea in Storia economica, Università degli studi di Cassino, facoltà di Economia e Commercio, Anno Accademico 1995-96)

La tintura e la tessitura

Dopo aver tosato le pecore, la lana, prima di essere tessuta, doveva essere lavata e spurgata per eliminare il grasso ed i residui di sudiciume, quest’ultimi derivanti dal pascolo (residui vegetali, cardi). Le prime essenziali operazioni erano quindi quelle dello sgrassaggio e della lavatura,  che si effettuavano in quel tempo con l’utilizzo di sapone a base di soda; la stessa operazione oggi, con l’utilizzo di tecniche moderne, viene fatta attraverso un bagno di acido che brucia le impurità contenute nella lana.
Una volta lavata, la lana veniva messa ad asciugare, e manualmente veniva poi ulteriormente separata dalle impurità residue.

Successivamente, se la lana era destinata alla tessitura di panni colorati, si passava alla tintura della fibra dandole la giusta colorazione; venivano utilizzati a tale scopo appositi contenitori (tino, caldaia o bacino) nei quali la lana si impregnava di colore che, spesso, man mano che la lana stessa veniva strizzata e messa ad asciugare, a causa di un processo di ossidazione naturale, assumeva una tonalità molto diversa dalla tinta di base; succedeva ad esempio che un colore verde dato con la tintura diventasse blu non appena la lana si asciugava;  lavata, sgrassata ed eventualmente tinta, la lana passava alla lavorazione meccanica;
La prima macchina che veniva utilizzata era la “lupetta”, il cui compito era quello di sfioccare e pettinare la lana pulendola completamente dai cascami.
A questo punto, se si volevano ottenere particolari colorazioni, un apposito attrezzo mescolava lane di diverse tonalità di colore (il colore beige, ad esempio, si otteneva con l’unione di fibre bianche con fibre rossastre). Successivamente la lana veniva cosparsa di olio, operazione questa necessaria per ammorbidirla e per renderla quindi meno soggetta a spezzarsi nel procedimento di filatura.Quindi si passava alla cardatura,  procedimento con il quale si aprivano i fiocchi di lana, eliminandone ulteriori impurità e, iniziando ad orientare parallelamente le fibre, si dava forma ad un velo di dimensioni e peso costanti.
Con quest’ultimo passaggio terminava la lavorazione della lana destinata alla confezione, ad esempio, di coperte imbottite; per la lavorazione in fili, invece, la lana subiva un  ulteriore cardatura che la trasformava in filo grosso, non raffinato e senza torsione, per la successiva filatura.
Mediante la filanda poi si potevano dare al filo diversi tipi di torsione, a seconda dell’uso che si doveva fare della lana, che davano allo stesso diversi gradi di consistenza e di robustezza.
Una volta passata alla filanda, quando cioè si era ottenuto il fuso, se la lana era destinata ai lavori di maglieria, si passava alla ritorcitura ossia all’abbinamento di due o più fili intrecciati; questa operazione veniva fatta mediante una macchina ritorcitrice. Il filo dopo questa operazione veniva ammatassato e sistemato in magazzino.
Infine, per la produzione di tessuti, il filo passava nell’orditoio in modo da formare l’ordito che veniva successivamente messo nei telai, e passando attraverso i licci, con la trama diveniva tessuto; il tessuto così ottenuto era passato alla follatura, che gli dava infittimento e compattezza; infine, a seconda del tessuto (usato per abito per altri usi) c’era la rifinitura, cioè la cimatura che radeva uniformemente tutti i peli, e la spazzolatura per  eliminare le fibre residue.

(Si nota la grande importanza attribuita al processo produttivo in relazione alla qualità finale del prodotto, sulla base della quale naturalmente, veniva stabilito il prezzo di vendita e quindi il segmento del mercato di smercio. I principali elementi che influenzavano negativamente la qualità del prodotto finito,  riguardavano anche l’utilizzo di lana grezza di bassa qualità scelta dai fabbricatori o per mancanza di capitali o per l’avidità di un guadagno maggiore;  inoltre la caratteristica scarsità d’acqua,  essenziale per alcune fasi della lavorazione, costringeva “i fabricatori a provvederla dal Fiume lontano un Miglio circa dall’abitato, soggiacendo alla spesa del trasporto valutata bajocchi cinque, per ogni Barile Romano” [dati14]; ancora “il cattivo purgo, che secondo il dire di tutti quei Fabricatori colà si esperimenta dei Panni presso il Privatario Sig. Francesco Antonio Tofanelli” [dati14]; ed infine, ma non per importanza, lo scarso uso di macchine che accelerassero e migliorassero alcune lavorazioni, per le quali l’uso esclusivo della manodopera rappresentava un vero impedimento alla maggiore qualità del prodotto ed alla riduzione dei tempi di produzione. In riferimento al problema dell’approvvigionamento idrico, Benvenuti proponeva di far concorrere tutte le famiglie alatrine, naturalmente in base alle loro possibilità economiche, alla spesa per la costruzione “di una Fontana nel Luogo Centrico del Paese, e alla Costruzione delle Vasche adattate al Bagno delle Lane” [dati14], ritenendo che ciò potesse essere quindi di pubblica utilità sia civile sia industriale; considerando poi la diffusa scarsità di capitale che accomunava la maggior parte degli imprenditori alatrini, forte impedimento questo per l’acquisizione di strumenti meccanici, Benvenuti riteneva che l’amministrazione cittadina dovesse assumersi l’onere di acquistare i macchinari necessari e distribuirli ai fabbricatori permettendo loro di pagarli in più rate.)

All’interno della stessa relazione viene dettagliatamente descritta anche l’operazione dello spurgo, e si legge:

“Il Locale del Purgo è situato fuori della Città alla lontananza di circa un miglio di strada comoda nella Contrade le Comuni.
Vi sono impiegati quattro operai, uno de quali lavora il sapone. Per tale lavorazione si impiega in ogni cotta una orciola di olio di buona qualità del peso di 62 rubi, 4 di cenere, mezza coppa di calce viva, ed otto barili di acqua forte. Bolle tutto per 24 ore in una caldaia d’onde levato si rigetta in una vaschetta, e così si ha il sapone il quale senz’altra manifattura va a mettersi in opera.
Premesse tali notizie sufficienti a conoscere la qualità del sapone, passo ad accennare il metodo tenuto nel purgo.
“Il Panno si tuffa dentro una vasca di acqua tiepida, e nel primo bagno s’impiegano circa rubi 40 di sapone.
Spremuta quindi bene la pezza, si rituffa per la seconda nel bagno con altre 28 rubi di sapone. Rispremuta nuovamente, si ripone in ultimo nella vasca con altre 14 rubi di sapone.
Ogni bagno porta il tempo di mezzora circa. Ciò avviene nel purgo dei Panni ordinari. In quello dei panni in 60 e 70 portate, ha luogo il quarto bagno con egual dose di sapone impiegato nel terzo.
Il Privatario nel decorso dell’anno 1824 ha percetto la propina di scudi due per ogni pezza qualunque di panno purgato” [dati14].

 

Notizie tratte da:

GENI COSTANZO, Aspetti della Politica industriale pontificia tra XVIII e XIX secolo: il caso di Alatri (tesi di laurea in Storia economica, Università degli studi di Cassino, facoltà di Economia e Commercio, Anno Accademico 1995-96)

Prosegue, dopo aver presentato Il Panno di Alatri  (e in articoli sequenziali, fino al n. 3), il nostro excursus sull’attività produttiva lanaria di Alatri nel 1824. Produzione, manifattura, tintura e struttura organizzativa.

Le fasi della lavorazione della lana

Una consistente quantità di dati relativi alla produzione laniera di Alatri nell’anno 1824 è contenuta in una serie di schedari che recano la firma di S. Benvenuti, Delegato Straordinario, custoditi presso l’Archivio di Stato di Roma (Miscellanea della Statistica, Busta 27); si riportano qui di seguito i dati generali, seguiti poi dalle descrizioni analitiche di ogni singolo opificio. Nel 1824 esistevano ad Alatri 28 opifici destinati alla produzione tessile, nei quali erano impiegati circa 600 lavoratori; gli insediamenti industriali erano collocati all’interno della città, ad ulteriore vantaggio degli operai e degli affittuari degli edifici.
Il salario corrisposto con retribuzione giornaliera era uniformato a tutti gli opifici e consisteva in 20 bajocchi per gli uomini, 7,5 bajocchi per le donne e 3 bajocchi per i ragazzi. In numero approssimativo delle giornate lavorative, nell’arco dell’anno, era di 200 per gli uomini, 100 per le donne e 200 per i ragazzi. Le spese di manutenzione comprendevano generalmente l’affitto dei locali adibiti alla produzione, il costo degli stigli, il consumo di legna e carbone e le spese di spurgo e valcatura; ed era uniformemente calcolato pari al 7% del valore totale della produzione. I tempi medi di produzione erano ”Nei lavori di Panni in 24, 30 e 40 portate principiando dalla prima operazione, cioè dall’assortimento delle lane fino all’ultima, ossia all’apparecchio del Panno occorre il tempo di un mese intero. Per quelli in 50 portate si richiedono giorni 60; altri 75 giorni per quelli in 60 portate; e mesi necessitano al compimento dei panni di ultima perfezione” [dati14].

In una relazione sulle manifatture laniere, redatta nel 1824 dal Delegato Straordinario S. Benvenuti per descrivere sommariamente il ciclo produttivo delle stoffe di lana, si trovano utilissimi cenni sulle fasi di lavorazione della lana nelle industrie alatrine.

“Le manifatture, che senza il soccorso delle macchine si eseguiscono mediante la manodopera in tutte le parti di loro lavorazione, debbano presentare dei prodotti se non del tutto difficili, almeno dispendiosi ad ottenersi, e di niun pregio per poterli accreditare nel Commercio.
Di tal sorta sono quelle Lanerie, che si effettuano negli opifici esistenti nella Città di Alatri.
Unitosi a ciò l’altro difetto della scarsa cognizione dell’Arte, onde preparare, secondo le regole la materia grezza, e condurre giusta il dovere il lavoro a compimento;  non possono sperarsi giammai dei tessuti perfetti: ecco il metodo, che si tiene in queste lavorazioni.
Il prodotto, che come materia prima, ed essenziale si adopera nella manifattura, cioè la lana, la provvedono i fabricatori porzione nella Capitale, ed il resto nella Provincia. Depurata dalle materie cretose ed eterogenee; si assortisce; quindi si scardazza; si olia,  si sbozza a cardi ordinari,  si imprime, si fila, s’incannella, si ordisce, s’incolla  ed in ultimo si tesse. Il tessuto si purga e si valca: poscia si carza, e si cima, per quanto richiede la qualità delle manifatture; ed in seguito si tinge, si lava, si spiana, si tira, si spelucca, si sbruzza, ed infine si mette nel torchio per l’apparecchio.La cardatura, filatura e le altre operazioni preliminari si eseguiscono generalmente con quasi niuna soddisfazione, ciò che produce un tessuto a stami irregolari, e difformi. Se la tessitura è meno infelice, il purgo , peraltro, e la valca a cui viene assoggettata la materia manifatturata, non producono giammai una segregazione totale della parte oleosa, così che si hanno sempre dei panni generalmente riputati di niun pregio, e di poco valore. Inoltre non possedendo quei fabricatori la maniera di colorire i loro prodotti, non conoscono neppure il modo di abbellirli del dovuto apparecchio” [dati14]”.

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GENI COSTANZO, Aspetti della Politica industriale pontificia tra XVIII e XIX secolo: il caso di Alatri (tesi di laurea in Storia economica, Università degli studi di Cassino, facoltà di Economia e Commercio, Anno Accademico 1995-96)